Ok Boomer!
Ok Boomer un cazzo!
So che vi sentite tutti fenomeni, ma con questa faccenda dell’Ok Boomer, diciamolo apertamente, ci avete fatto sorridere per lo stesso lasso di tempo in cui Lionel Messi resta sospeso in aria per colpire di testa, non un secondo di più, fatevene una ragione. Subito dopo il sorriso si è tramutato nel ghigno di chi si è rotto il cazzo. Il nostro ghigno.
Figuriamoci, non è morto nessuno, succede.
Del resto, mica vi viene sempre bene. Stavolta avete sbagliato mira.
Amen.
È che sfottere qualcuno a partire dall’anagrafe perché, a vostro dire, è sull’anagrafe che fa leva per ergersi a maestro di chissà che invece che addossarsi colpe che magari tecnicamente neanche ha, converrete, è un discorso che parte già male. Dare del vecchio a chi vi chiama giovani, sticazzi, clash of Titans.
Se poi ci mettete la simpatia innata di chi vuole creare a tutti i costi un refrain, uno slogan, ma ha lo stesso appeal di Gegia, forse un po’ meno, e se non siete Boomer e quindi non sapete chi è Gegia, beh, che dire?, fatti vostri, beh, il gioco è fatto.
Anche perché la storia in realtà è un’altra.
Non è che chi è più vecchio di voi voglia insegnarvi la vita, tanto quanto non è necessariamente vero che abbia reali responsabilità su quanto vi è toccato in sorte, provate a capirlo, non vuole insegnarvi la vita, non è l’artefice dell’Apocalisse, né è portato per natura a lamentarsi dell’attualità, contrapposta a un qualche passato decisamente idealizzato che spesso non ha neanche vissuto di prima mano. Non è così, o non è così più di quanto avvenga in natura, senza bisogno di buttarla in caciara.
No, niente di tutto questo.
È più che altro che noi, e per noi non intendo solo noi cinquantenni, quindi tecnicamente neanche gente che andrebbe catalogata come Boomer, ma anche voi che siete molto più giovani di noi, ci stiamo trovando a vivere in un’epoca di decadenza, credo sia normale lamentarsene, brontolare, magari evocando anche epoche passate che tanto meglio non sono state, e chi lo nega? Un’epoca di decadenza che in qualche modo ci siamo trovati apparecchiata di fronte, senza per questo stare a fare una guerra a chi ha qualche anno più di noi. Ah, beata gioventù, ah, beata vecchiaia.
Un’epoca di decadenza che, in quanto tale, la storia ce lo avrebbe insegnato, le avessimo prestato un po’ più di attenzione, può rivelarsi quantomai affascinante, con tutti quegli spazi di ombra dentro i quali ci si può muovere agilmente, anche impuniti, ma che al tempo stesso, non avendo noi la famosa palla di vetro che ci fornisce informazioni precise riguardo quando questa epoca di decadenza finirà, porta con sé tutta quella ridda di malesseri e malumori tipici di quando il futuro è anche meno dell’ipotesi cantata da Enrico Ruggeri ormai una vita fa.
Brancoliamo nel buio, per farla breve, con di fronte a noi una incognita grande come l’Everest. Mi sfugge quindi cosa abbiate da riderci su.
Tutto è da ricostruire, in poche parole, con tutto quello che una ricostruzione può portare con sé, grandi idee e grandi possibilità, certo, tanto quanto macerie da sgomberare e difficoltà nell’arrivare al domani.
Poi ognuno di noi è libero di guardare al bicchierino da grappa come mezzo vuoto o mezzo pieno, e di pensare, nel caso, che a svuotarlo sia stato l’avventore entrato nel bar giusto qualche minuto prima di voi, e poco importa se l’avventore in questione il bicchierino neanche ha fatto in tempo a vederlo.
Intendiamoci, per chi fa il mio lavoro, torno a vestire i panni del critico musicale, fanculo tutto il resto, quello cioè non solo di analizzare lo stato di salute della musica, concentro l’attenzione sul mio orticello, provando a fornire chiavi di lettura possibili e analisi intellegibili, ma anche di raccontare quel che alla musica gira intorno, per chi fa il mio lavoro trovarsi nel momento in cui Jena Plissken sta per spingere il bottone che relegherà l’umanità nel nuovo Medioevo, senza più luce, quindi tecnologia, quindi possibilità di vivere come si è abituata a vivere, ecco, per chi fa il mio lavoro vivere in quest’epoca può anche essere qualcosa di estremamente interessante, addirittura sexy.
Certo, tocca fare i conti con la carestia, con la peste decameroniana, non solo quella cronachistica che ben conosciamo in questi giorni, ma anche quella metaforica nella quale ci siamo trovati a muoverci ormai da anni, di volta in volta isolati da questo o quel macroproblema irrisolvibile creato a monte e usato come un pungolo per tenerci in un angolo, muti.
Tocca fare i conti col fatto che le tavole fino a poco tempo fa imbandite e piene di ogni succulenza oggi si sorreggano a stento su tre piedi, prive anche di vettovaglie figuriamoci le leccornie, e oltre che con la carestia tocca anche fare i conti con questo continuo cambiamento e richiesta di adeguamento al ribasso, flessibili non tanto per attitudine o vocazione, ma per necessità se non addirittura per costrizione, senza certezze, senza quei diritti ormai dati per acquisiti, addirittura senza più neanche la misera soddisfazione, tipica di chi altro non ha, di essere considerati non dico socialmente validi, ma accettabili, oggi la parola intellettuale è un’offesa, mica qualcosa cui ambire come un riconoscimento del proprio valore e del proprio lavoro.
Tocca fare i conti, in sostanza, con il trovarsi a essere cantori di un’epoca in cui, sembra, a nessuno interessi sapere quel che succede, spesso additando i cantori come responsabili delle trame narrate, ambasciator che porta pena, cornuti e mazziati.
Tocca fare i conti con tutto questo, ma vuoi mettere la soddisfazione di trovarsi nel momento giusto al posto giusto, foss’anche il momento sbagliato nel posto sbagliato, stiamo parlando di Apocalisse, cioè quello più meritevole di essere immortalato, fermato sulla carta, vera o virtuale, per i posteri?
Vuoi mettere l’euforia che provoca il non sapere mai quanto in basso si potrà cadere, e se dico “si potrà” non è tanto perché io, che sono il cantore, mi ritenga parte del tutto che racconto, ma giusto per infilare un po’ di pietà cristiana in un racconto che altrimenti sarebbe solo morte e disperazione?
Vuoi mettere il brivido sottile di vedere chi hai descritto ogni santo giorno come dei coglioni votati all’autodistruzione nel momento in cui, appunto, si autodistruggono?
Tu sei lì che dici che affidarsi alle radio è un errore, perché è come lasciare a un ladro le chiavi di casa, ovvio che non te la farà trovare esattamente come l’hai lasciata, ovvio che non ti passerà Roomba e non controllerà che il gas sia in effetti chiuso, piuttosto arriverà con un camion di traslochi nella notte e te la svuoterà di tutto, e già è tanto che non ti lasci anche qualche cagata nelle stanze ormai vuote, e zac, ecco che le radio cominciano a fare tutto da sole, diventano editori degli artisti che passano, o passano solo gli artisti di cui diventano editori, in maniera non sempre volontarissima, passando poi a produrli direttamente, a farli duettare tra loro, a imporre una sorta di gabella volatile, o così o non passi.
Tu sei lì che dici che demandare ai talent tutto lo scouting che storicamente è stata parte fondante della discografia, certo scorciatoia che regala nell’immediato piccole soddisfazioni, ma che si dimostra sin dalla nascita col fiato corto, incapace di creare un vero, Dio mi perdoni per l’espressione, percorso artistico, rincorrendo piuttosto il plauso superficiale di un pubblico televisivo tanto caloroso nell’immediato quanto incapace di una vera passione, e zac, ecco che i talent, ormai diventati vera e propria sede principale degli uffici degli A&R delle discografiche diventano sterili, incapaci di tirare fuori anche talentini usa e getta come quelli sfornati in passato, programmi televisivi che ritornano a essere solo programmi televisivi.
Tu sei lì che dici che puntare tutto il banco sullo streaming, alterando i dati reali di vendita gonfiandoli all’infinito, dando quindi vita a un diluvio di certificazioni finte e vacue e quindi dopando il mercato, per di più eleggendo a unico Re Salomone di turno al ragazzino che gestisce le playlist di Spotify o il Tavecchio della discografia, l’uomo col parrucchino che da anni parla di innovazione senza averne minima competenza, è gesto folle, di chi non solo non capisce nulla della storia della discografia, perché senza costruire un catalogo, sembro il Gesù del Vangelo, è come voler erigere una casa senza fondamenta, al primo refolo di vento viene giù tutto, e perché proclamare la regalità di personaggetti che hanno un seguito momentaneo in rete, ma che non sono in grado di costruirsi un reale repertorio, e che non hanno poi un reale seguito dal vivo, è come scendere in strada e affidare il proprio futuro al primo che passa, senza neanche stare a chiedere se al primo che passa in effetti interessa avere in mano il nostro futuro.
Una voce che grida nel deserto, si dice sempre nel medesimo Libro su citato, ecco come ti senti. Ma anche se sai che prima o poi arriverà una tizia poco vestita e dotata di un sicuro sex appeal che chiederà di poter avere la tua testa su un vassoio d’argento, ben sapendo che già la stessa richiesta è stata fatta da un fottìo di artisti decisamente meno dotati di sex appeal e anche da qualche promoter non eccessivamente alto, sai anche che essere quello che grida nel deserto è un ruolo importante, poco importa che tu ti debba vestire di pelle di cammello e nutrire di locuste, la tavola è priva di leccornie, se le sono già pappate tutte quelli che stavano lì prima del tuo arrivo.
Siamo a ridosso della fine del mondo, lo dici e lo dici provando a spiegarlo soprattutto ai più giovani, quelli che in sostanza hanno ben più di te da perdere, perché tu i tuoi primi cinquant’anni li hai vissuti, perché ti sei fatto un nome e seppur in assenza di leccornie mangiare mangi e perché in fondo il fatto che loro fatichino a trovare spazio in questa decadenza fa sì che tu il tuo piccolo spazio continui a averlo, siamo a ridosso della fine del mondo, lo dici e lo dici provando a spiegarlo soprattutto ai più giovani, certo usando parole grevi, lasciandoti andare a ironia che, David Foster Wallace ben lo sapeva prima di uccidersi, spesso sfocia in sarcasmo, ma lo dici chiaramente, per il loro bene, anche, e loro ti rispondono: Ok Boomer, pagati cinque euro lordi a articolo per farlo, sfruttati come bestie da soma per farlo, contenti già dei cuoricini che qualche cantante in cerca di affetto mette ai loro post e ai loro tweet, nutriti a tartine e pacche sulle spalle dagli uffici stampa che li fanno sedere in ultima fila alle presentazioni.
L’Ok Boomer di cui sopra, quindi, circoscrivo all’ambito in cui lavoro, diventa il sorriso compiaciuto di chi pensa di averti immortalato mentre ti stai infilando le dita nel naso, tu vecchio trombone che hai vissuto la golden age della discografia, e sticazzi se in realtà ne hai solo sentito parlare, l’Ok Boomer diventa il sorriso compiaciuto di chi pensa di averti immortalato mentre ti stai infilando le dita nel naso inconsapevole che alle sue spalle sta arrivando lo Tsunami che porterà via lui, il suo smartphone e le tue caccole appiccicate alle dita.
Perché magari è anche vero che con l’età si tende a diventare saccenti e anche brontoloni, e che in qualche modo chi ha transitato prima e per più tempo sulla Terra ha qualche responsabilità riguardo all’imminente Apocalisse, ma forse sarebbe il caso di capire un po’ meglio i ruoli reali ed è pur vero che “l’esperienza insegna” rimane un modo di dire che millenni di storia non hanno saputo smentire. Quello che sembra mancare oggi, lo dico ai non boomer all’ascolto, io che tecnicamente non sono Boomer e non sono manco Millennial, è l’empatia nei confronti di chi c’è stato prima di voi, oltre che una quasi totale ignoranza rispetto alle reali dinamiche che ci hanno condotto a un minuto dalla fine. Non dico il rispetto, perché quello non necessariamente chi ha vissuto più a lungo lo merita, ma quella forma di empatia che l’essere sullo stesso cornicione che sta per staccarsi dovrebbe indurre a avere con chi si trova a pochi centimetri dal vostro culo. Tanto alla fine moriamo tutti, millennials del cazzo, vedete almeno di morire sorridendoci.
BOOMER