1917, il film di Sam Mendes favorito all’Oscar: sotto la forma niente

Giovedì 23 esce in sala l’ultima fatica del regista di "American Beauty" e "Skyfall". La prima guerra mondiale raccontata in un solo, virtuosistico piano sequenza. Premi a raffica e 10 nomination agli Oscar. Ma la storia è elementare. Tutto fumo e pochissimo arrosto

1917 di Sam Mendes

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C’è seriamente il rischio che 1917 di Sam Mendes vinca l’Oscar come miglior film dell’anno. L’ultima opera del regista britannico ha vinto il Golden Globe e gli influenti PGA Awards assegnati dai produttori. In attesa, appunto, della notte degli Oscar, dove ha ottenuto dieci nomination, forte anche del successo al botteghino, primo weekend americano scalzando Star Wars e oltre 140 milioni di dollari complessivi fino a oggi.

Risultati che francamente sembrano eccessivi rispetto ai meriti del film che, stringi stringi, è tanto grandioso nella forma quanto esile nel discorso che porta avanti. Sam Mendes s’è ispirato ai racconti del nonno combattente sul fronte francese – la pellicola è dedicata a lui – per ricostruire lo scenario del Primo conflitto mondiale attraverso quella scioccante esperienza che fu la guerra di trincea, momento spartiacque nella storia del Novecento e delle nuove forme di uso della violenza, che coniugavano tecnologia e mobilitazione di massa.

Schofield (George MacKay) e Blake (Dean-Charles Chapman) sono due soldati dell’esercito britannico di stanza nel nord della Francia. Il generale Erinmore (Colin Firth) dà loro l’incarico di consegnare un dispaccio al colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch), che vuole sferrare un attacco col suo battaglione di 1600 persone, tra cui il fratello di Blake, ignaro del fatto che i tedeschi gli hanno teso un’imboscata. Così i due si lanciano immediatamente tra le insidie e le macerie del fronte occidentale per evitare una strage.

1917 di Sam Mendes è più o meno tutto qui, riassunto in questo dispositivo narrativo elementare, attorno al quale viene cesellata una confezione smagliante, che racconta la vicenda in un unico piano sequenza che maschera gli stacchi di montaggio, perché il film non è stato girato in un’unica take. Così lo spettatore viene gettato dentro la cronologia compressa e asfissiante di un’impresa disperata che è una corsa contro il tempo. Il racconto ha ambizioni d’affresco e, grazie anche alla come sempre accurata fotografia di Roger Deakins (alla sua 14esima nomination all’Oscar!) si viene catapultati dentro l’orrore della guerra seguendo le peripezie dei due militari. La camera tallona a distanza ravvicinata Schofield e Blake, per cogliere attraverso il loro sguardo lo scenario maestoso e e desolante di una natura violentata, piena di case diroccate, fumo, fango, topi che rosicchiano carcasse di cadaveri.

Dato per acclarato il realismo della messinscena, nulla più di quanto non sapessimo da film di minuziosa veridicità vecchi di vent’anni come Salvate Il Soldato Ryan, a lasciare perplessi è il senso dell’operazione. L’uso del piano sequenza non corrisponde a nessuna necessità tematica intrinseca, e finisce per essere l’esibizione di un virtuosismo stilistico che, di per sé stesso, dovrebbe dare al pubblico l’impressione di trovarsi davanti a chissà quale capolavoro.

Intendiamoci, sono sempre stimolanti i film che si pongono domande circa le forme della rappresentazione. Rispetto al tema della guerra e della violenza vengono in mente due esempi recenti importanti. Il Figlio Di Saul del premio Oscar László Nemes descrive la (non) vita nel lager di un prigioniero ebreo restando sempre incollato a lui, in una perenne semisoggettiva. Lo spettatore è gettato in un’esperienza immersiva fisicamente lancinante, mai effettistica o esteriore, perché tesa a restituire la percezione del recluso, catapultato in un mondo feroce, insensato e impazzito, di cui non capisce letteralmente nulla.

Altro caso è il bellissimo Dunkirk di Christopher Nolan. Un film che condivide con il 1917 di Sam Mendes una certa legnosa impostazione patriottica. Ma che la problematizza attraverso una messinscena motivata da un obiettivo preciso: descrivere come l’impatto fisico devastante della guerra alteri completamente le capacità percettive dell’essere umano. Quindi il film ribalta e dissolve coordinate temporali e spaziali, facendo sembrare un minuto un mese e l’alto il basso, perché quello è il mondo capovolto in cui sono scagliati i soldati scioccati dagli eventi. E i singoli quasi scompaiono, figurine senza volto risucchiate in una vicenda che ne sfigura e consuma l’identità.

Niente di tutto questo in 1917, con la sua rappresentazione vecchio stile di soldati che fanno diligentemente il loro dovere, sempre ritratti ben riconoscibili in primo piano. La loro psicologia però è elementare e gli incontri con altri personaggi puramente funzionali alla progressione del racconto. Il quale, una scena dopo l’altra, una prova dopo l’altra, prosegue meccanicamente dal punto a al punto b, dall’inizio della missione al suo necessario compimento – e pensare che questa sceneggiatura scheletrica ha avuto una nomination.

Non c’è mai una deviazione in 1917, mai un momento di vuoto o sospensione. La messinscena è organizzata minuziosamente e procede come un congegno a orologeria sempre nella stessa direzione, mossa dall’ambizione di raccontare l’essenza della guerra in sé senza però riuscire mai a raccontare quella guerra specifica. E non mostrando quasi curiosità per quei dettagli minuti del quotidiano che sono la sostanza di cui è fatta tanto la vita vera quanto un’autentica opera d’arte.

Così, al netto della forma accurata, nel 1917 di Sam Mendes rimangono solo il patriottismo e gli eroi. I militari hanno paura ma sono senza macchia e non si interrogano mai su obiettivi e ordini dei superiori (mentre la follia intrinseca del comando è il tema portante di un capolavoro di trincea cui viene naturale pensare vedendo 1917, ovviamente Orizzonti Di Gloria di Kubrick).

Sul piano simbolico, la scelta del piano sequenza sembra suggerire questo: che per quanto tremendo, il mondo in guerra ha ancora un senso, un filo logico che è quello di un’esperienza sicuramente terribile ma senza fratture percettive (e quindi senza stacchi di montaggio), in cui resta saldo il legame tra chi comanda e chi è comandato, in una linea gerarchica che non si spezza e che conferma, più che mettere in crisi, l’ordine costituito della realtà così com’è. 1917 è una versione in confezione aggiornata dei filmoni bellici hollywoodiani di una volta.