A cosa serve la musica?
Basterebbe partire da questa semplice, stupida domanda, per provare a decifrare questa fine di decennio che corre il rischio di essere ricordata più per essere stato il punto più basso in campo artistico da che esiste la musica leggera che per altro.
Perché una ovvietà è che oggi, grazie o per colpa, poi cercheremo di capirlo, allo streaming, a Youtube, alla rete, al digitale, la musica è diventata onnipresente, pervasiva, ha permeato come non mai il nostro vivere quotidiano, come fossimo i protagonisti di uno di quei film caciaroni e caotici alla Emir Kusturica, tipo Underground o Gatto nero, gatto bianco, che uno va in giro, e per uno si intende il protagonista, e intorno a lui c’è sempre una banda che suona qualcosa, spesso musica da matrimoni o funerali come quella di Goran Bregovic, Dio mio quante ovvietà che sto mettendo una dietro l’altra oggi.
Ci svegliamo rapiti dal sonno con un brano che il nostro smartphone ha adottato come “sveglia” e da quel momento la musica ci accompagna sempre e ovunque, con le cuffiette, con la filodiffusione di ogni ambiente pubblico, con Spotify, l’autoradio, insomma, sempre e comunque musica.
Tutto il giorno.
Tutti i giorni.
Una musica, ovviamente, che ha assunto sempre di più le caratteristiche di musica da sottofondo. Senza avere l’ambizione colta di un Brian Eno che, ormai oltre quarant’anni fa andava a sperimentare nel mondo della musica fatta per chi non si aspetta di starla a sentire, con i suoi Music For Airports e la sostanziale invenzione della musica ambient, né con la più pragmatica e concreta volontà di creare appunto musica buona per gli ascensori, di quella che ha come scopo quello di rilassarci mentre ci troviamo per qualche secondo in un ambiente angusto in compagnia di sconosciuti.
No, di colpo la musica è diventata onnipresente, fruita in prevalenza nella maniera sbagliata, se per maniera giusta si intende con supporti che ne consentano un ascolto qualitativamente alto, capace di farci comprendere tutte le parti di una composizione, che renda i suoni nitidi e piacevoli, anche quando non devono necessariamente essere tali. Al punto che la stessa modalità di composizione della musica si è sempre più appoggiata sulla bassa qualità degli strumenti con cui la musica si ascolta oggi, discorso già ascoltato più e più volte, con la negazione della dinamica, l’azzeramento dell’armonia, insomma, quella roba lì che oggi imperversa.
Ma non è della qualità delle composizioni che vorrei parlare oggi, né della modalità della fruizione, tanto meno vorrei addentrarmi così, ex abrupto, in discorsi che girino intorno al semplice concetto di bello, perché è evidente che viviamo in un momento di decadenza, e il bello e la decadenza non necessariamente anno a braccetto, a meno che non lo si sappia lucidamente e non lo si voglia in qualche modo mettere in scena.
No, l’aspetto che mi interessa sottolineare, nei pochi spazi che lo scrivere un articolo, per di più un articolo che, esattamente come la musica di cui sopra, leggerete con buona probabilità alla cazzo, su uno smartphone, magari mentre siete seduti sulla tazza del cesso, o mentre aspettate il vostro turno alla cassa del supermercato, l’aspetto che mi interessa sottolineare è come la musica, oggi, divenuta per mere questioni di mercato sottofondo costante, abbia perso la sua principale mission, cioè quella di accompagnare solo e esclusivamente alcune parti della nostra vita.
Intendiamoci, da che la musica è diventata un prodotto questa mission si è andata via via scontornando, presto lo vedremo, ma è pur vero che nel suo scontornarsi non ha inizialmente perso la sua matrice originaria, semplicemente è diventata anche altro, mentre oggi è solo altro.
Mi spiego meglio.
Pensate al canto gregoriano. Tranquilli, non voglio addentrarmi in tecnicismi, che neanche pratico così bene, ma è un tipo di canto, basato su un solista e un coro, tutti uomini, senza accompagnamento da parte di strumenti, cioè a cappella, e che ha come peculiarità principale la monodia, tutti cioè cantano la stessa nota allo stesso momento, all’unisono. Siccome la sua caratteristica principale è appunto è di essere un canto monodico, le scale cui farà riferimento sono quelle modali e diatoniche, con l’esclusione di ogni tipo di cromatismo. Senza entrare troppo nello specifico, il canto gregoriano ha uno scopo liturgico, per quello è stato ideato, per quello i compositori che lo hanno praticato hanno scritto. Solo nella liturgia si usava il canto gregoriano.
Pensate al blues. Nato nella comunità afroamericana negli Stati Uniti d’America, durante l’epoca della schiavitù, figlio dei canti delle diverse tribù dai quali gli schiavi provenivano, ha accompagnato i lavoratori nei campi di cotone, certamente, ma è sempre stato caricato di chiari riferimenti sessuali, sabbatici, al punto che il rock’n’roll, che del blues è diretta derivazione, prende nome proprio dal semplice gesto di fianchi e bacino di chi scopa. Le caratteristiche del blues, come poi del rock, sono la ripetitività, appoggiata sulle dodici battute, suddivisa in genere in tre frasi. Ripetitivamente, quindi, appoggiati sulle prime quattro battute sull’accoro di tonica, cui si aggiunge la settima nella quarta battuta, per poi spostarsi per due battute sull’accordo di sottodominante, poi due ancora sulla tonica e per chiudere due sull’accordo di settima dominante e due di tonica. Qualcosa di praticabile anche per chi, era il caso degli schiavi, non conoscesse la musica scritta. Per quel che riguarda il canto, la cui melodia ha ovviamente il suo punto di forza nelle così dette blue note, è impostato in un canone antifonale, con quattro battute di botta, quattro di risposta e ancora quattro di chiusura. Questa era una musica, quindi, che veicolava un messaggio diverso da quello che sembrava veicolare, ma che in qualche modo manteneva accesa una fiammella che la schiavitù e l’abbruttimento del lavoro dei campi avrebbe altrimenti potuto spegnere.
Potrei andare avanti all’infinito.
Un tempo non si partiva per la guerra se prima non si erano intonati inni atti a ingraziarsi le divinità del caso, e al tempo stesso non ci si era caricati reciprocamente gli uni con gli altri, soldati pronti a dare la vita.
Le ninne nanne, sono canzoni nate col solo scopo di far addormentare i bambini, di cacciare i cattivi spiriti nella notte, di preservarli nel sonno, di farli addormentare sereni.
Ci sono canti popolari, tipo gli stornelli, qualcosa di non troppo distante da quello che poi avrebbe dato vita al rap, il cui scopo è sfottere qualcun altro, in una sorta di gara atta a dimostrare la propria superiorità a usare la lingua. Ce ne sono altre atte a cantare l’amore. Altre che vogliono piangere i morti, si pensi ai Requiem.
La musica è nata, o quantomeno è presto diventata, qualcosa che doveva accompagnare alcune fasi della nostra vita. Del resto è un linguaggio che travalica la lingua parlata, che usa codici riconoscibili anche da persone che provengono da culture diverse dalle nostre, seppur con dovuti distinguo. Un ritmo ossessivo è tale in ogni parte del mondo, come una scala in minore, anche se le scale decodificate differiscono non dico da paese a paese ma quasi. La musica è un linguaggio e come tale è sempre stato usato.
Per dire, guardando al nostro passato, al passato della nostra tradizione musicale, qui in Italia, nessuno avrebbe usato una canto carnascialesco, per dire, per un funerale, perché i codici musicali ci avrebbero spiazzato, sarebbe risultato osceno, irriverente, eversivo. E più semplicemente sarebbe risultato incomprensibile, come parlare una lingua sconosciuta a qualcuno sperando di farci capire.
Poi, negli anni, la musica ha cominciato a diventare un prodotto, e i fruitori della musica, con l’invenzione dei giovani, sono cominciati a diventare un target cui guardare come ipotetici acquirenti. Pian piano, quindi, la musica è passata dall’essere una forma di comunicazione, in molti casi una forma d’arte, all’essere una forma di puro intrattenimento. Di semplice intrattenimento. Deprivata di ogni significato altro, di ogni mission.
Questo è stato a lungo il pop, senza voler caricare queste parole di sfumature negative, come semplice constatazione amichevole.
Ma mentre questa nuova metodologia prendeva sempre più piede, mentre, cioè, il rock’n’roll, nato come fiamma atta a bruciare le regole e a animare gli spiriti giovanili della prima generazione che si era affrancata dal dover passare dall’infanzia direttamente all’età matura, diventava canone svuotato, innocuo, lobotomizzato come il protagonista di Qualcuno Volò Sul Nido Del Cuculo, non a caso romanzo monstre di quel Ken Kesey che fu a suo modo cantore dell’Estate dell’Amore coi suoi Acid Test e i suoi Merry Pranksters, anima musicale coi futuri Grateful Dead e i tanti artisti che animarono quella fine di anni Sessanta, eroi di quel rock psichedelico che più di ogni altro provò a farsi altro rispetto a quello che il sistema aveva pensato, ecco che cominciavano a spuntare qua e là focolai di rivolta, ribelli che provavano a piegare un canone per farne una versione sporca e marcia, sicuramente pericolosa. Quindi ecco il punk, ecco il rap, ecco la musica techno pensata per i rave. Non musica pensata e scritta per accompagnare tanto fasi specifiche della vita quotidiana, quanto per essere colonna sonora di specifiche categorie sociali o antropologiche.
Da una parte, quindi, musica come codice di una forma di resistenza, seppur coi rischi che una veloce metabolizzazione di tutti i linguaggi comporta, dall’altra il semplice intrattenimento, vuoto, innocuo.
Oggi, però, siamo a una involuzione della specie, una forma monocellulare, da brodo primordiale, della musica. Siamo passati, e stiamo parlando di sfumature, lo so, dall’intrattenimento al sottofondo, all’ascolto frammentario, vaporizzato, veloce, dieci, quindici secondi, poco più. Musica pensata per fare da colonna sonora a microvideo per Tik Tok, un ritornello elementare che deve partire subito, arrivare subito, ripetersi in loop. Non musica da ambiente, nessuno osi tirare in ballo Brian Eno, men che meno Eric Satie, ma musica da cuffiette, da smartphone, da social.
Quel che ci si chiede, una volta chiestoci a cosa serve la musica oggi, diventa quindi: quale sarà la risposta della resistenza a questa nuova deriva?
Se, cioè, il punk è stata una reazione situazionista, più o meno spontanea, esistono tesi discordanti a riguardo, ma poco cambia, alla cristallizzazione del rock, al suo essere diventato qualcosa di classificabile, catalogabile, equiparato alla tanto odiata musica classica, erroneamente equiparata a quel che l’accademia poteva rappresentare per l’avanguardia, cosa mai potrà arrivare oggi a contrastare questa musica così spezzettata, esile, inutilmente ripetitiva e vuota di ogni contenuto (non lo si legga solo come messaggio alto, anche semplicemente come transfert)?
Perché che anche oggi ci sia, da qualche parte, un John Connor pronto a guidare la ribellione è certezza cui non possiamo non credere, pena la nostra salvaguardia spirituale e psicologica, anche se è impossibile, con le avanguardie e le forme di rottura succede sempre così, immaginare che suono avrà questa nuova musica, che faccia avranno i musicisti che la proporranno.
In questo contesto così decadente e apocalittico, e Dio solo sa quanto io mi sia stancato di raccontarvi questo lungo momento di stand-by che prelude alla fine di tutto, reiterato negli anni, giorno dopo giorno, non rimane che guardarsi indietro, certi che ancora un po’ di quel fuoco che in passato a dato alle fiamme il sistema sia ancora vivo, sotto la cenere. Una sorta di speranza che fatica a sopire, di esempio per le nuove generazioni, o più semplicemente qualcosa cui ci siamo aggrappati con tenacia quando pensavamo che la battaglia che stavamo combattendo fosse quella finale, salvo poi scoprire che quella in cui siamo incappati è una guerra infinita.
Per questo, specie nel momento in cui in genere ci si lascia andare a lunghe liste del “meglio di” dedicate all’anno che volge al termine, e nello specifico, al decennio che volge al termine, eccomi a rigirarmi per le mani il bazooka che Sarah Connor punta contro Terminator, la sola possibilità di uscire vivo da qui. Il bazooka in questione ha una confezione rosa, trenta per trenta, un titolo esemplificativo, Punksnotdead, e ha come titolari coloro che per primi, nella nostra nazione, portarono proprio quel vento di ribellione, i Decibel.
Esco dalla metafora, vi ho chiesto anche troppo, oggi. È uscito il cofanetto che celebra il live del ritorno dei Decibel, storica band punk d’autore che ha visto esordire oltre quarant’anni fa un giovanissimo Enrico Ruggeri al fianco di Fulvio Muzio e Silvio Capeccia. Una reunion arrivata, d’improvviso, due anni fa, con Noblesse Oblige, proseguita l’anno successivo con il passaggio sanremese di Lettera Dal Duca e la pubblicazione di L’Anticristo e ora cristallizzata in un cofanetto che è una ventata d’aria buona per un tisico che fatica a rimettersi in piedi in un sanatorio sul Lago Maggiore. Due live, questo il cuore del prezioso oggetto in questione, uno registrato al Teatro Nazionale, l’altro al Fabrique. Nel primo, al fianco dei tre Decibel, l’ospite che la band ha fortissimamente voluto a Sanremo, Midge Ure, generoso nell’accompagnarli in vecchi cavalli di battaglia e cover indiavolate. Nel secondo il caloroso abbraccio del pubblico accorso per festeggiare la fine, momentanea, di una rinascita che molti avevano favoleggiato e a cui quasi nessuno aveva osato sperare. Oltre ai due cd in questione, stiamo parlando pur sempre di artisti nati negli anni Cinquanta, seppur al loro volgere, i vinili dei medesimi live, ma anche i DVD dei medesimi live, oltre che un libro fotografico atto a testimoniare un biennio incredibile. Spiace solo vedere certe facce indegne campeggiare tra le foto commemorative, nel giorno in cui la stampa ha ascoltato per la prima volta Noblesse Oblige, ma anche i monumenti più importanti e significativi hanno dovuto fare i conti con le cagate di certi piccioni. Piccioni che col cazzo che oggi stanno a celebrare un cofanetto così importante, non solo come reperto storico, memoria di un momento speciale, ma proprio come oggetto prezioso, alto, Stele di Rosetta di un codice di ribellione che oggi sembra faticare a trovare una sua attualizzazione.
Non è dato sapere se anche il futuro vedrà i Decibel tornare in scena. Non è quindi dato a sapere se dovremo semplicemente accontentarci, Dio grazie che anche chi come me non li aveva vissuti all’epoca ha potuto riviverli, maledetta anagrafe, non è quindi dato a sapere se dovremo semplicemente accontentarci di ricordarli, magari proprio consumando Punksnotdead, in tutte le sue forme. Quel che è certo è che il punk non è in effetti morto, che il fuoco brucia ancora sotto la cenere, e che quindi ancora oggi la musica è capace di farci alzare la testa, guardare al sistema come qualcosa da far saltare in aria, magari prendendolo a calci in culo con un paio di Doc Martens.