Sono uscite le classifiche di Spotify, lo sapete. E lo sapete perché con ottime probabilità siete tra quanti hanno pubblicato sui social la propria personale classifica di ascolti, mettendo l’hashtag #SpotifyWrapped. Vantandovi di quante ore avete passato a ascoltare brani in streaming, e esibendo i vostri gusti personali manco fossero medaglie al merito.
In sostanza siete ben felici di fare pubblicità a un prodotto di cui siete clienti, e mettete pure i vostri dati personali sotto gli occhi di tutti, magari tra un post e l’altro sui social in cui diffidate Zuckerberg dal violare la vostra privacy.
Bravi.
Non bastasse il fatto che così facendo avete regalato pubblicità a chi pagate per ascoltare musica sostanzialmente sottratta gratuitamente a autori e interpreti, rubare a tutti per dare ai ricchi, forma di Robinhoodismo 2.0.
Bene, bravi, bis.
Ora, credo sia abbastanza risaputo una mia radicale posizione nei confronti delle piattaforme di streaming, Spotify su tutte. Non è una questione luddista, sia chiaro, mi state leggendo presumibilmente su uno smartphone, perché è in rete che pubblico questi miei scritti, figuriamoci se sono contro questo mondo iperconnesso nel quale viviamo, figuriamoci se ho qualcosa contro la modernità o come la volete chiamare. No, a me sta proprio sul cazzo Spotify. Perché Spotify è diventato un simbolo, ovviamente, perché come Spotify ci sono le altre piattaforme di streaming che, forse con la sola eccezione di Tidal, ragionano alla stessa maniera, e perché sicuramente è Spotify che ha contribuito più delle altre piattaforme di streaming a imporre questa unicità di pensiero che risponde al nome di streaming, appunto, il tutto sulle spalle degli artisti, che grazie all’abboccamento tra l’azienda svedese e le loro case discografiche finiscono per diventare ascoltatissimi ma senza guadagnarne.
Quindi parliamo di Spotify, delle sue classifiche, delle classifiche di chi usa Spotify e le pubblica sui social, e di chi, se non pubblichi la tua o addirittura osi dire che non usi Spotify, arriva a darti del reazionario, del fuori dal tempo, andando poi a tirare in ballo la vera anacronisticità di questa epoca, l’esistenza dei critici musicali, pensando con questo di ferirti sul personale, di darti del superfluo, dell’obsoleto.
Allora, proviamo a dirlo con calma.
Sono un uomo che, con ogni probabilità, ha vissuto la parte più lunga della sua vita. Cioè, la volessimo vedere come una curva che sale verso l’alto, tocca un picco, e poi ridiscende verso il basso, ecco, sono un uomo la cui curva sta scendendo verso il basso, dopo aver percorso la parte più ampia della curva e toccato il suo punto più alto. Quindi, è questo che volevo dire, non certo parlarvi di curve, rivendico il sacrosanto diritto di ascoltare la musica che voglio nel modo che scelgo. Ho la fortuna, fortuna che mi sono conquistato, intendiamoci, non piovutami addosso per blasone o per diritti acquisiti, di poter ascoltare buona parte della musica nel modo in cui chiedo di ascoltarla, perché se così non è, semplicemente, faccio a meno di ascoltarla. Il che comporta, quindi, che non uso Spotify, ma passo ugualmente tutto il giorno a ascoltare musica e ascoltare anche una quantità industriale di musica nuova, semplicemente non utilizzando lo streaming.
Succede.
Può succedere.
Nessun titolare di app per lo streaming è stato maltrattato per scrivere questo articolo, posso aggiungere.
Sono un reazionario?
Mi risulta faticoso crederlo, figuriamoci ammetterlo. Perché nei fatti trovo molto più reazionario adottare un pensiero unico, cioè dire agli altri quello che devono assolutamente fare, o negare la possibilità che chi non si comporta in un certo modo non possa occuparsi di musica, per dire, e perché la possibilità di dire quello che voglio e di ascoltare quello che voglio me la sono conquistata non certo leccando il culo a chi è al momento al posto di comando, direi che carta mai come in questo caso canta.
E siccome ascolto musica, e ne ascolto molta e molta di nuova, non posso postare uno screenshot che indica quali brani ho ascoltato di più nell’ultimo anno, né quante ore ho dedicato all’ascolto, ma so dirvi con certezza matematica qual è l’album che ho ascoltato di più nelle ultime settimane, e so anche dirvi con certezza matematica dove li ho ascoltati.
Parto dal secondo punto, i miei ascolti maggiori sono avvenuti in auto, il luogo in cui a grandi linee passo qualche ora tutti i giorni. Un luogo, proprio in virtù del mio passarci parecchio tempo ogni giorno, che ho voluto provvisto di lettore CD, fatto oggi desueto al punto che, nel computo totale del costo della mia auto, acquistata un paio di anni fa, credo che detto lettore abbia pesato quasi quanto il resto della macchina. Quindi, in auto, io ho ascoltato più e più volte un album che, fossi stato a casa o in ufficio o in palestra, luogo che confesso non frequento da che ho finito le superiori, quando mi obbligavano a farlo durante l’ora di educazione fisica, ho ascoltato più e più volte un album che avessi usato Spotify sicuramente avrei fatto fatica a trovare. Perché, diciamocelo, quello che Spotify ci vende, perché ce lo vende, non so se ve ne siete accorti, anzi, quello che Spotify vi vende, visto che io non lo utilizzo, non è il possesso di un brano, e neanche la semplice possibilità di ascoltarlo. No, quello che Spotify vi vende, non a caso un terzo degli ascolti passano dalle Playlist, è una schematizzazione degli ascolti. Un percorso, una gabbia, una visita guidata che vi porti a ascoltare la musica che più vi piace, o che qualcuno, il tizio che compila le Playlist, nello specifico, vuole farvi credere sia la musica che più vi piace, incasellata nel posto giusto. Come quando entri in biblioteca, sei lì che cerchi un libro e sai che lo troverai in ordine alfabetico, al massimo diviso per generi. Ecco questa faccenda dei generi complica un po’ le cose, perché ci deve essere qualcuno, il bibliotecario, nello specifico, che stabilisce un determinato libro in quale categoria rientri, sempre che non sia stato deciso a monte dall’editore. Altra complicazione sta nel fatto che uno entra nella libreria Spotify, e una volta capito qual è il suo genere, si trova sia la Playlist compilata arbitrariamente dal tizio di cui sopra, sia tutto il resto lì, affastellato senza possibilità di orientarsi. Perché, questo il segreto e uno dei tanti limiti di Spotify, in teoria la piattaforma dovrebbe aiutarci a sentire la musica che più fa per noi, avete presente il famoso algoritmo, in realtà ci fa ascoltare la musica che qualcuno pensa faccia per noi, senza però avere le competenze per stabilirlo, e non tenendo conto del fatto che l’arte, in quanto arte, non necessariamente è incasellabile. Anzi, spesso non lo è affatto, e proprio in virtù dell’essere meticcia, mista, indefinita, è arte.
Torno quindi al mio “CarWrapped”, la mia classifica degli ascolti degli ultimi tempi in auto. Al primo posto campeggia un album che difficilmente saprei collocare, La Mia Stanza Segreta di Valentina Gullace. Una cantautrice, e questo ci dice già qualcosa, ma si sa che il cantautorato femminile non è un genere, perché appoggiato troppo su un genere sessuale e poco su uno musicale, che gioca a entrare uscire costantemente dai canoni jazz, questa la sua area di provenienza, sporcandoli, anche se niente è più lontano dalla parola sporco di questa artista e questo album, con il pop, genere sicuramente trattato con meno radicalità da addetti ai lavori e soprattutto da chi lo pratica. Undici canzoni, tante sono quelle contenute nella tracklist, che quindi sparigliano costantemente le carte sul tavolo, al punto da rendere indefinito il tavolo stesso, ma si legga questa mia descrizione come uno dei massimi complimenti che un ascoltatore appassionato e attento possa fare a una artista, cioè riconoscerle la capacità di piegare i canoni per farne di propri, originali, unici, suoi.
Valentina Gullace è sicuramente una artista che, in un mondo più attento, sarebbe sotto le luci dei riflettori. Non che non lo sia, tutt’altro, ma lo è più spesso come attrice e cantante nei musical, proprio ora è in giro con The Full Monty, che come cantautrice, probabilmente anche per questa sua caratteristica di non essere catalogabile. Perché se ascoltate canzoni come l’eponima, La Mia Stanza Segreta, o quella perla di La Responsabilità Di Te, impreziosita dalla tromba di Fabrizio Bosso, presente anche nella bellissima Respirare, con anche Daniele Cordisco alla chitarra, e Winter, o il duetto con Marco Stabile, Resta Qui, se in sostanza ascoltate tutte le tracce di questo album d’esordio, non fatemele citare tutte, sono vecchio e stanco, album d’esordio covato a lungo, negli anni, non vi potrà sfuggire come Valentina Gullace sia, oltre che una grande compositrice e un’ottima interprete, una donna fondamentalmente libera. Libera da paletti mentali, perché solo senza porsi dei limiti dati da confini che probabilmente sono presi più seriamente nel mondo del jazz che in quello del pop, si possono mettere insieme canzoni così eleganti e senza tempo, ma libera anche da quella logica di mercato che oggi spinge chiunque si affacci al mondo a rinchiudersi dentro una di quelle caselle, nella speranza di finire in una determinata Playlist su Spotify.
Valentina Gullace spazia, nel senso etimologico del termine, come acqua fresca che assume la forma dei corpi che va a avvolgere, non certo lasciando che sia un bicchiere o una bottiglia a dettarne i contorni.
La speranza, chiunque sia a Roma non se la perda alla Casa del Jazz di Roma il 10 dicembre, è che le sue canzoni arrivino al maggior numero possibile di persone, volendo anche con lo streaming, perché non c’è niente di più efficace della bella musica per superare le fragilità che questo mondo oggi ci cuce addosso come divise d’ordinanza, e la musica e le canzoni di Valentina Gullace, quelle canzoni che proprio di fragilità parlano, mimetizzandosi, sono bella musica, ma musica bella davvero. Se mai vi capitasse di incrociarmi mentre sono in giro per Milano con la mia auto, nella speranza che non vi mandi a fanculo, come spesso la macchina e il traffico milanese mi induce a fare con gli esseri umani che mi stanno attorno, sappiate che sto ascoltando lei, Valentina Gullace con La Mia Stanza Segreta. Anzi, ringraziatela, perché ci sono ottime possibilità che se non vi mando a fanculo è proprio per la sua grazia e per la bellezza che quelle canzoni trasmettono, grazia e bellezza che mi inducono alla gioia più che vaffanculo. Insomma, ascoltatela anche voi e siatele grati.