Un albero che cade fa molto più rumore di un albero che cresce. Se un albero cade in mezzo a una foresta, dove nessuno può sentirne il rumore, fa ugualmente rumore? Che cazzo ce ne frega degli alberi, direbbe Jovanotti, invitandoci a passare oltre e pensando già al suo imminente duetto con Tiziano Ferro e al suo album di cover dedicate alla Luna in uscita tra un mesetto, a sorpresa. Per una volta gli diamo ragione. Il fatto è che David Byrne, qualche mese fa, ha avuto un’altra delle sue idee geniali. E stavolta, come spesso, va detto, è geniale più perché a avere questa idea è stato lui che per l’idea in sé. L’idea è la nascita di un sito, titolo Reasons to be Cheerful (www.reasonstobecheerful.world) , Motivi per essere felici, figlio in qualche modo del suo ultimo lavoro di studio American Utopia. Del disco, come spesso capita quando si parla dei lavori discografici di David Byrne, sia quelli che hanno il suo nome in copertina come artista, sia quelli che lo vedono dietro le quinte, come produttore e direttore artistico, non si può che dir bene. Già a partire dal fatto che, come spesso in passato, sia con il marchio Talking Heads sia in proprio, al suo fianco c’è quell’altro genio di Brian Eno, garanzia di attenzione e di specialità, per non dire poi di un suo amorevole ritorno al passato, al suo passato bello, fatto di ritmi, di fiati, di percussioni, e di quell’incredibile spirito pop, ma di un pop intelligente che ci fa sentire tutti migliori. Il tutto, è di Byrne che stiamo parlando, in una struttura da concept album che intende raccontarci che fine ha fatto l’America, oggi, e nel farlo prova a decifrare che china ha preso il capitalismo che in qualche modo ha mosso l’intera nazione per anni. Come sempre il tutto è altissimo, coltissimo, a volte indecodificabile, ma al tempo stesso leggero, naturale, quasi scontato. David Byrne, del resto, non è mica solo un musicista e cantante, è anche un etnomusicologo, un sociologo ad honorem, un antropologo, e soprattutto un genio. American Utopia non è il suo miglior lavoro, ma il suo non essere il miglior disco di David Byrne va comunque sempre interpretato come l’essere assai meglio di buona parte della merda che gira adesso. Prova ne è anche la versione live, nello specifico il live che ne porta il titolo registrato a Broadway e da poche ore date alle stampe.
Ma non è di questo che si parla qui, adesso. È del sito che voglio parlare, perché la notizia, nei giorni scorsi, ha fatto il giro del mondo, mondo che da che esistono i siti è diventato decisamente più piccolo ma che, qui la scintilla che ha mosso Byrne a far nascere il sito in questione, da che esiste la rete, e soprattutto il social è diventato un posto più cupo, pieno di bruttezza e di odio. Un sito, quindi, questo, che raccoglie solo notizie positive, che parla solo di progetti votati all’ottimismo, alla positività. Motivi per essere felici, appunto, come programmaticamente recita il titolo. Motivi per sposare la speranza, laddove tutto intorno a noi sembra imperare la disperazione e il pessimismo. Con lo slogan “un tonico per tempi tumultuosi” il sito è stato lanciato con grande spolvero, anche e soprattutto per la paternità dello stesso Byrne, che per altro nel sito in questione scrive di proprio pugno editoriali sempre piuttosto ficcanti. Ora, torniamo alla faccenda degli alberi, e proviamo a spostare qui e ora il ragionamento di Byrne, anzi, provo a spostarlo qui e ora io, in prima persona.Tralascio subito in partenza l’idea di critica costruttiva, ne ho già parlato più e più volte e solo l’idea di dare dignità a una cazzata del genere mi lascia nello sconforto. Ma anche non volendo dar seguito ai tanti che, quotidianamente, mi accusano di essere uno che non fa critica costruttiva, è evidente che la faccenda dell’essersi fatto un certo nome grazie a stroncature anche piuttosto violente, prima, e a editoriali che hanno in qualche modo fatto traballare la macchina, evidenziando crepe se non addirittura falle mi è piuttosto evidente. Sono uno che, nel migliore dei casi, viene definito cattivo, magari anche temuto, ma che in generale è considerato una sorta di orco sanguinario capace di mangiarsi il cuore degli artisti, sempre che di artisti si possa parlare e che un cuore in effetti ce l’abbiano. Dai, scherzavo, era appunto per giocare su questo concetto che ho scritto l’ultima frase, saltatela e torniamo alla faccenda dell’essersi fatti un nome come cattivo e temuto. Insomma, come uno che se c’è da distruggere è in prima fila, il sangue che cola ai lati della bocca, una mazza coperta di fil di ferro appoggiata alla spalla, come Negan di The Walking Dead. In genere, quando mi danno del sanguinario mi incazzo. O meglio, fingo di incazzarmi, come spesso capita di fare quando si è sui social, il posto dove lo scambio tra chi scrive per lavoro e chi legge è ormai all’ordine del giorno.
Fingo di incazzarmi esattamente come si finge di essersi divertiti quando si mettono gli emoticon delle risate, e come succede per un po’ tutto il resto. Non perché io ritenga che ci sia una reale differenza tra la vita vissuta fuori dai social e quella che nei social va in scena, ma perché è evidente che quel che ci si dice sui social non coincide a quello che ci si direbbe vis a vis, ne ho prova provata ogni volta che mi capita di incontrare qualcuno che mi legge. Comunque, se mi si da del sanguinario mi incazzo, perché ritengo, e posso portare prove a riguardo, di essere in realtà un critico piuttosto generoso nello spendermi per evidenziare il bello. Intendiamoci, so che due dei miei articoli più letti, e anche diventati in qualche modo dei cavalli di battaglia hanno titoli tipo “Esce Simili di Laura Pausini, poteva intitolarlo “A cazzo di cane” e paragonano un album, quello di Biagio Antonacci dal titolo “Dediche e manie” a un cavallo che affoga dal buco del culo, e so che è anche in virtù di questi articoli che il mio nome ha girato e gira ancora parecchio tra chi segue la musica, e soprattutto tra chi odia la cosiddetta musica demmerda (anche lì, ho pubblicato non a caso un libro che si intitola “Manuale di sopravvivenza alla musica demmerda”, mica sono un santo), ma so anche di aver dedicato non so più quanti articoli a artisti indipendenti, spendendo fiumi di parole per cercare di portare un po’ di visibilità su musica che altrimenti non sarebbe uscita neanche per un minuto dal cono d’ombra nel quale proprio chi fa la musica demmerda l’ha relegata. Senza entrare nello specifico, il solo fatto di aver dato vita, ormai tre anni fa, dopo cinque anni in cui in tutti i casi mi sbattevo anche molto riguardo al cantautorato femminile, il progetto Festivalino di Anatomia Femminile la dice lunga su come io intenda occuparmi anche di musica di qualità, spesso andando addirittura a anticipare la discografia, cioè scrivendo di giovani artiste che ancora non hanno neanche trovato un contratto discografico, magari contribuendo coi miei scritti, coi video ospitati dal Festivalino, a far sì che quel contratto arrivi, come che arrivino date dal vivo, l’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori. Insomma, se mi si da del sanguinario mi incazzo, almeno formalmente. Ma io un sanguinario in effetti lo sono, e lo sono in maniera anche piuttosto lucida, quindi, per parafrasare, se il sangue metaforico di cui parlo fosse vero, se cioè i miei massacri corrispondessero non a metaforiche critiche musicali ma a veri e propri atti di violenza fisica, non potrei neanche contare sull’infermità mentale, ma avrei l’aggravante della premeditazione (non quella dei futili motivi, però, diciamolo).
Il fatto è che per poter continuare a parlare di artisti che un mercato miope relega al ruolo di minori, se non addirittura di invisibili, non includendoli in sé, lasciandoli cioè Festivalino di Anatomia:a margine in un altro mercato realmente alternativo, devo avere una visibilità che, ne ho prova provata, si nutre di quel sangue di cui, sempre a rigor di metafora, mi lorda mani e indumenti. Mi spiego, se voglio che mi si legga anche nel momento in cui parlo di una giovane artista che ancora non ha neanche pubblicato il suo album devo esserci, essere visibile, cogliere l’interesse aprioristico del lettore, insomma, essere ricercato, e per esserci, per cogliere l’interesse aprioristico del lettore, per essere ricercato è necessario che io mantenga viva anche la mia anima sanguinaria. Non che sia una richiesta editoriale, intendiamoci, ho la fortuna di lavorare con editori che mi permettono davvero di scrivere di quello che ritengo interessante, senza imposizioni o forzature, né per un mio freddo calcolo, ma solo perché assecondare le implicite richieste dei lettori a volte mi consente di avere poi quella libertà che altrimenti faticherei a procurarmi. Ma non basta. Non ho mai scritto una riga per interesse, checché ne dicano quanti pensano che io sia mosso da odio. Anzi, fatemi dire una cosa riguardo l’odio. Non ho in vita mia mai odiato nessuno, credo di poter dire senza paura di guardarmi poi allo specchio. Certo mi sono state e mi stanno sul cazzo parecchie persone, penso ai fascisti, ma l’odio è altra cosa. Non ho mai avuto motivo per odiare, probabilmente, non ne faccio quindi un merito personale, ma non ho mai odiato nessuno. E parlo di gente che conosco, o che anche non conoscendo ha fatto cose che in qualche modo potrebbero essere registrate in un folder dal titolo “odiosi”. Figuriamoci se potrei mai odiare un cantante. Per cosa, poi? Perché fa musica demmerda? Casomai potrei dire di disprezzarne il lavoro, questo sì. Lo faccio e lo faccio con consapevolezza, ma mai pensato che il disprezzo provato per il lavoro di qualcuno dovesse coincidere con il disprezzo di colui che quel lavoro ha fatto. Ripeto, ci sono antipatie, ma l’antipatia non è odio. E cerco di tenere l’antipatia fuori dai miei scritti, potendo. È per altro vero che alcuni artisti che stimo particolarmente siano diventati miei amici proprio a partire dalla loro musica, che mi ha spinto a cercare di conoscerli meglio. Ma questa è altra faccenda, tornando all’odio, se pensate che sia la benzina che fa muovere il mio motore siete fuori strada.
Non ho mai scritto una riga per interesse, checché ne dicano quanti pensano che io sia mosso da odio, dicevo. Come dire, se scrivo che Dediche e Manie di Biagio Antonacci mi fa cagare, non l’ho scritto così, ovvio, ma questo è un sunto abbastanza coerente con il famoso articolo dei cavalli che affogano dal culo di cui sopra, l’ho scritto perché lo penso, e lo penso perché a questo mi ha portato il mio mestiere, la mia esperienza, la mia cultura, e soprattutto il fatto che in effetti fosse un lavoro che fa cagare. L’aver tirato in ballo i cavalli che affogano dal culo, semmai, è il dar agio alla mia presunta sanguinarietà, il mio modo stilosissimo, diciamocelo, di svolgere un lavoro che in certi frangenti, mettetevi nei panni di uno che deve scrivere dell’album Dediche e Manie di Biagio Antonacci, può risultare agghiacciante. Il fatto che questo, poi, mi consenta di dire che C’è qui qualcosa che ti riguarda di Patrizia Laquidara sia uno dei lavori più importanti della storia della musica italiana degli ultimi dieci e passa anni è un effetto collaterale piacevole, non lo nego, forse anche un effetto collaterale necessario e ricercato. Ma sono partito dal presupposto che Dediche e Manie facesse cagare, mica me lo sono inventato io, né ho costretto io Antonacci a fare un disco così brutto. Del resto, torniamo alla faccenda degli alberi, se non si abbattono gli alberi malati di Xylella quelli sani si ammaleranno presto, o non troveranno spazio per crescere. Per ricostruire o costruire qualcosa di bello, oggi, tocca distruggere il brutto e eliminare le macerie. Purtroppo, spiace per il vescovo Berkeley che nel settecento parlava del paradosso dell’albero che cade non visto da nessuno, ipotizzando che solo nell’essere percepiti dagli altri stesse il segreto dell’essenza, caxxo, in pieno Illuminismo, un albero che cade cade, ma per farlo cadere spesso serve che arrivi qualcuno con l’accetta e lo faccia a pezzi davanti a tutti.
Io.
Io che ora son qui a dirvi, gli alberi abbattuti lì ammassati in un angolo, la accetta stretta in mano, di andarvi a ascoltare il nuovo singolo di Dalise, Semplicemente e basta, una artista che ha qualcosa da dire, con uno stile suo, riconoscibile, e che nel farlo non ha difficoltà a affrontare questo semplice fatto di essere bella, di essere donna e di aver un corpo col il quale fare i conti, anche di questo si parla in questa canzone, ascoltare per credere. Guardare per credere. Qui trovate il link al suo video, https://www.youtube.com/watch?v=fIa1RdEOIbQ .
O a dirvi di andarvi ad ascoltare Petra di Manupuma, un ritorno importante il suo, artista di grande talento accantonata da una discografia miope, mica per caso parliamo della Universal, incapace non solo di identificare nuovi talenti, ma di tenersi stretti quelli che per motivi inspiegabili è riuscita in passato a interccettare. Una canzone, Petra, che spero lasci intravedere un lavoro più lungo in un futuro prossimo. Una canzone che affronta di petto il femminile, anche se lei direbbe il femmineo (presente la faccenda dell’anima e dell’animus?), tavolozza piena di sfumature quale in effetti è il mondo musicale e umano della nostra. Qui trovate il link del suo video: https://www.youtube.com/watch?v=GNwZbcCGuvo .
O a dirvi di recuperare questo gioiello che risponde al nome di Aprile, di questo gioiello di artista che risponde al nome di LAF, progetto solista di Francesca Sabatino, artista dalle mille sfaccettature, tra le altre voce solista dell’ensemble multietnico Orchestra di Via Padova. Un brano, Aprile, dedicato al mese in cui la vita torna a sbocciare e che LAF ha voluto raccontarci visivamente andando a introdurci al Villaggio delle Rose, campo della comunità Romanì sito a Milano, un modo per rendere omaggio a un popolo così profondamente legati a quella terra e quel cielo che proprio in Aprile tornano a muoversi e rinascere. LAF, progetto dalle venature elettroniche, eteree, ma al tempo stesso sanguignamente legato al canto, un canto femminile e femmineo al tempo stesso, arma potente nelle mani di questa artista così poliedrica, ha fin qui pubblicato un solo EP, dal medesimo titolo, Aprile, appunto, e mai come oggi avremmo bisogno di sue nuove canzoni, capaci di avvolgerci come un balsamo. Ecco qui il link dove trovare il video: https://www.youtube.com/watch?v=7fk9efNb4fU .
O ancora, poi vi saluto, che si è fatta una certa, a dirvi di andarvi a cercare Ti ho portato il mare di Cristiana Verardo. Cristiana, fresca vincitrice del Premio Bianca D’Aponte con Non potevo saperlo, intensa canzone in cui racconta la storia della figlia di un mafioso che si scopre tale guardando una fiction in tv, qui alla prova con un brano più pop, nelle intenzioni, ma altrettanto importante nella resa. Una bellissima canzone pop, con un ritornello che ti si inchioda nella testa e un video, lo trovate a questo link (https://www.youtube.com/watch?v=ba2gDH8TnYc ), che è a sua volta una piccola opera d’arte. Una artista, Cristiana Verardo, da seguire con attenzione, prova provata che il cantautorato femminile è davvero una fucina di talenti, liberi di sperimentare e di spaziare senza paletti e confini, la aspettiamo con curiosità col suo secondo album, spero tra non troppo. Dalise, Manupuma e Cristiana Verardo, tre cantautrici lontane tra loro, ma accomunate dal talento, dalla consapevolezza della propria femminilità, e da una potenzialità ancora non atto solo per una contingenza, essere nate in questa epoca in questo posto, contingenza che, a suon di colpi di accetta, stiamo provando a modificare, abbattere, far esplodere. Stiamo provando… sto provando, io. Io che non sono David Byrne, ma credo sia pleonastico dirlo, e che amerei un giorno poter parlare solo delle Patrizia Laquidara, delle Dalise, delle Manupuma, delle LAF, delle Cristiana Verardo del caso, ma che per ora mi trovo a dover parlare anche di cavalli che affogano dal culo. Non solo motivi per essere felici, quindi, ma anche motivi per abbattere alberi marci sorridendo.