Ve lo diciamo subito, Death Stranding è un videogioco unico. Non solo per il suo genere di appartenenza – quello degli action game a mondo aperto -, ma anche e soprattutto nell’intero universo in pixel e poligoni. D’altronde si tratta dell’ultima opera di Hideo Kojima, un nome che nell’industria non ha di certo bisogno di presentazioni. Complesso, sfaccettato, a tratti contraddittorio, l’estro del game designer giapponese ha fin da subito catturato le attenzioni di appassionati e esperti di settore. Tanto che, all’uscita di ogni titolo che porta la sua firma, l’attenzione mediatica e la semplice curiosità fanno registrare impennate senza precedenti. Lo stesso sta accadendo con questa esclusiva temporale per PlayStation 4, in dirittura d’arrivo anche sugli schermi dei nostri PC nel corso dell’estate del prossimo anno. Già con la Metal Gear Saga, Kojima aveva dato prova di sapere analizzare, metabolizzare e infine interpretare nel linguaggio videoludico le tematiche dei propri tempi. Fonti di ispirazione sono stati film, moti sociali e la letteratura più disparata: non è un caso che il protagonista della sua serie più iconica si chiami Snake, come il personaggio interpretato da Kurt Russel nella versione originale del celebre action movie Fuga da New York, come non stupisce il continuo sforzo dell’autore dagli occhi a mandorla di conciliare – non senza sbavature, intendiamoci – gameplay e narrazione, divertimento ed esigenze di copione.
Da quei meravigliosi anni ’90, il medium videoludico è incredibilmente maturato. Opere come Red Dead Redemption 2 di Rockstar Games hanno scelto un marcato impianto cinematografico per emozionare i fan e aumentarne esponenzialmente il divertimento. Limando, se necessario, le libertà concesse proprio nelle meccaniche di gioco. Una strada, questa, di certo rischiosa, e che il buon Hideo ha cavalcato innumerevoli volte. Trovando poi il giusto equilibrio proprio con Death Stranding sulla console di ultima generazione di “mamma” Sony, che ospita dall’8 novembre un videogame in cui due aspetti prima considerati non sovrapponibili riescono a danzare armoniosamente. Regalando al suo vasto pubblico quella che è di fatto una pura opera crossmediale, oltre che una evidente chiave di lettura della società contemporanea. Non staremo qui a raccontarvi la trama del gioco per evitare naturalmente spoiler, ma sappiate che il viaggio di Sam Porter Bridges – il protagonista interpretato dalla star di The Walking Dead Norman Reedus – è molto più di un’avventura dall’intenso sapore sci-fi. Così come molto più di una mera “simulazione di consegne” come qualche frettoloso gamer ha voluto definirlo. Hideo Kojima plasma temi tanto cari alla fantascienza e alla fantapolitica per piegarli al suo volere, al suo desiderio di raccontare il presente e dare un senso alle sue sbavature, alle sue inenarrabili ingiustizie. Il “papà” di Metal Gear, in piena maturità artistica e creativa, narra della potenza dei legami umani in un tessuto geografico e sociale in cui il mondo dei vivi e quello dei morti si confondono, facendosi quasi da specchio l’un l’altro. Colpa di un misterioso cataclisma metafisico, che porta bambini appena nati in un limbo tra la vita e la morte, ergendoli a simbolo di una umanità alla ricerca di se stessa, ma al tempo stesso sempre più inebriata dai like, dai social e dalla condivisione più perversa.
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I neonati visibili nei tanti trailer di Death Stranding, nella loro fisiologica fragilità, fanno da ponte tra i due mondi che dicevamo. E sono il mezzo con cui l’eroe pennellato da Reedus, “fattorino del mondo”, cercherà di riunificare un’umanità divisa e straziata dal cataclisma. Pare allora chiaro, e lo sarà ancora di più impugnando il pad, come Death Stranding faccia della sua dualità il suo vero punto di forza, per una storia che, crescendo, metterà a nudo sia la corruttibilità che la forza dirompente dei legami tra i pochi sopravvissuti. Il gioco di Kojima è allora una genuina e complessa chiave di lettura dei tempi moderni, catarsi della razza umana che prova a rinascere da uno stato costante di pre-morte. E lo fa affidando il suo destino proprio a un corriere, un uomo che bussa alla porta di vite che non si incontreranno mai. Un messaggio, quello del maestro nipponico, che è pure cinema, intrattenimento e divertimento, e in ultima analisi uno dei prodotti culturali più coraggiosi e originali che l’industria dell’entertainment abbia mai avuto l’onore di accogliere tra le sue affollate fila.