Mystic River è il capolavoro di Clint Eastwood, un apologo su violenza e destino

Stasera alle 21 su Iris il bellissimo film con Sean Penn, Tim Robbins e Kevin Bacon. Ha definito lo stile dell’ultima prodigiosa fase di Eastwood regista. Penn e Robbins vinsero l’Oscar

Mystic River

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La prospettiva cui resta incatenato il mondo raccontato da Mystic River la esprime Jimmy Markum (Sean Peann) quando spiega la ragione dell’istintiva antipatia che prova per un ragazzo che conosce appena, figlio di un criminale di mezza tacca con cui ebbe a che fare molti anni prima: “Ho solo pensato che la mela non cade lontana dall’albero”.

Il punto è che in questa periferia di Boston, blocchi di squallidi casermoni affacciati su un solo stradone e sul fiume Mystic, tutto cade a un metro dall’albero, destinato a perpetrare errori e violenze che non salvano mai nessuno e non rendono migliore il mondo.

Mystic River, tratto dal romanzo La Morte Non Dimentica di Dennis Lehane e sceneggiato da Brian Helgeland, è il film che nel 2003, ha definito lo stile maturo del Clint Eastwood della sua ultima, prodigiosa fase da regista, che continuerà con opere stilisticamente coerenti come Million Dollar Baby e Gran Torino. Mystic River è un apologo sconsolato, in cui la speranza non ha più cittadinanza. Il dolore e il fallimento sono incisi nella storia come fossero scritti nel cemento, incancellabili. Infatti è su un blocco di cemento che, nel prologo, tre ragazzini, Jimmy, Sean e Dave, incidono i loro nomi. È il giorno più brutto della loro vita, quando il più fragile dei tre, Dave, mentre giocavano sul solito stradone, viene rapito da due pedofili e violentato in una cantina per quattro giorni.

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Mystic River
  • Kevin Bacon (Actor)
  • Clint Eastwood (Director)

Una volta adulto, Dave (Tim Robbins) è preda dei suoi demoni: è sposato e ha un figlio, ma è restato immobile nella sua sofferenza, appassionato di film di vampiri, insomma non morti, nei quali confusamente proietta l’immagine di sé stesso. Jimmy (Penn) dopo la galera s’è rifatto una vita per amore della figlia, ma mantiene i suoi rapporti con la criminalità attraverso l’amicizia con due loschi fratelli dal cognome, Savage, inequivocabile – sul Mystic River basta un cognome a decidere il tuo destino. Sean (Kevin Bacon) è diventato un poliziotto, apparentemente il più fortunato dei tre. Però si è separato dalla moglie, la quale da sei mesi continua a telefonargli ogni giorno senza dire una parola, chiusa nel mutismo di un dolore che non riesce nemmeno a trovare parole per esprimersi.

Una tragedia obbliga i tre ex amici per la pelle a rivedersi: l’assassinio brutale, insensato, della figlia diciannovenne di Jimmy. Lui medita vendetta, Sean è il detective assegnato al caso per fare giustizia. Dave diventa il sospettato numero uno, perché la notte dell’assassinio è tornato a casa sporco di sangue dopo aver malmenato, dice lui, un tizio che aveva cercato di rapinarlo. Perderanno tutti e tre. Dave resta l’agnello sacrificale – di un sacrificio individuale, inutile, che non arreca alcun vantaggio alla comunità. Jimmy trova una fallimentare vendetta. Sean risolve il caso, ma non riesce a fermare la spirale di violenza.

In un momento di lucidità Dave capisce che la violenza non lo aiuterà, perché “Ti fa sentire solo, far del male a qualcuno”. E Jimmy, quando è sul punto di infliggere l’agognato castigo dice sconsolato “Pensavo di aver chiuso con tutto questo”. Non è solo l’universo maschile chiuso dentro questi brutali rituali tribali. La moglie di Dave (Marcia Gay Harden) sospetta del marito e lo abbandona. Quella di Jimmy (Laura Linney), invece, novella lady Macbeth – esplicito riferimento di Eastwood – guarda orgogliosa il marito, “Tutti sono deboli tranne noi”, gli dice.

In un film coevo dalla storia simile, Sleepers, c’era un ambiguo panegirico della vendetta perpetrata da un ex gruppo di ragazzini violentati. Clint Eastwood non si fa invece illusioni in Mystic River, che comincia al buio, nella fotografia luttuosa di Tom Stern e finisce al buio, coi protagonisti condannati a ripetere il proprio itinerario di sofferenza.

A volte penso che ci siamo saliti tutti e tre insieme su quella macchina, e tutto questo è solo un sogno. In realtà siamo ancora ragazzini di 11 anni chiusi in una cantina a immaginare come sarebbe stata la nostra vita se fossimo scappati”. Questo dice Sean a Jimmy. Ed è irridente il finale, con tutti a festeggiare la parata del Columbus Day, come ci fosse ancora una promessa di futuro da agguantare, come individui e come paese. Invece è tutto malinconicamente alle spalle, eternamente immobile. Come quei tre nomi incisi nel cemento, tre graffi immodificabili, monito indelebile di quello che siamo stati e continueremo ineluttabilmente a essere.