L’Uomo Ragno se ne sta seduto su una sedia della cucina, le gambe appoggiate su una Stokke. Sta leggendo un libro, addosso il pigiama e la sua inseparabile maschera da ragno, che ne cela l’identità. Una scena curiosa, specie se avviene, appunto, nella cucina di casa tua. Fatto che in qualche modo circoscrive i dubbi su chi possa essere in realtà l’Uomo Ragno, perché a far due conti, tra altezza e libro che sta leggendo, direi che si tratta incontrovertibilmente di mio figlio Francesco, otto anni.
Inizio da questa scena al tempo stesso surreale e quotidiana. Surreale perché l’Uomo Ragno che legge un libro per bambini sul calcio nella propria cucina non dovrebbe essere una faccenda tanto normale. Quotidiana perché, qui sta la relatività di qualsiasi tipo di situazione, se si ha figli piccoli ci si abitua presto a scene come questa, che seguono una logica tutta loro, indecifrabile per un adulto, verrebbe da dire purtroppo, ma comunque naturale, quotidiana.
Perché parto da qui?
Perché credo che a volte i punti di vista siano tutto per riuscire a capire quel che succede, o almeno per dare una lettura non banale a quello che succede. E perché, ma questo è un vezzo narcisistico, lo so, quando qualcuno di voi si sente in dovere di dirmi che “rosico” o che dovrei “farmi una vita mia”, beh, provate a pensarmi che giro per casa, grattandomi il culo come Homer Simpson, mentre uno dei miei quattro figli, a otto anni, legge un libro con addosso la maschera dell’Uomo Ragno, vedrete che vi sentirete tanto ridicoli quanto vi sento io.
Bene, veniamo a noi.
Quando ero piccolo, negli anni Settanta, e nei primissimi anni Ottanta, con la mia famiglia frequentavo la parrocchia di San Francesco alle Scale, in Ancona. Era una parrocchia del centro storico, quartiere nel quale la mia famiglia, a ben vedere, non abitava più, ma al quale era decisamente molto legata, per motivi che credo di avervi già spiegato in passato. Del resto Ancona è una piccola città, e il suo centro è ancora più piccolo, spostarsi da un quartiere all’altro prevedeva l’uso della macchina, nel nostro caso prima una Opel Kadett azzurra, poi una Opel Olimpia giallo limonata, un colore imbarazzante per una macchina semisconosciuta che però mio padre era riuscito a acquistare per poco all’asta, sequestrata a non so che criminale e tenuta per un paio d’anni nel garage del suo meccanico, ma a parte questo l’essere di un quartiere diverso non comportava nessun tipo di fastidio. Anzi, la scelta di continuare a frequentare quel quartiere invece che quello nel quale risiedevamo, il centro preciso della città, ci consentiva di vivere a stretto contatto con gente che avesse molte più cose in comune di noi di quante la sola residenza non ci avrebbe concesso. Era un quartiere popolare, e noi ci sentivamo tutti a nostro agio.
Nella parrocchia si San Francesco alle Scale c’era tutta una fauna piuttosto interessante, ma questo l’ho capito solo crescendo. Fauna che, suppongo, avrei comunque trovata in qualsiasi altra parrocchia, sorta di microsocietà che presentava un po’ tutte le sfumature del caso. Tra questi c’era senz’altro il figlio dell’organista, la signora che aveva studiato musica e che musica insegnava che tutte le domeniche si siedeva dietro il bellissimo organo a canne della chiesta per accompagnare i canti che allietavano la messa. L’organista si chiamava Letizia, mentre il figlio, un ragazzo di almeno dieci anni più di me, si chiamava Riccardo. Riccardo Claudio, per l’esattezza, e il fatto che avesse per cognome quello che era a sua volta un nome mi faceva sorridere, perché essendo piccolo ero sprovvisto di quella malizia che in seguito mi avrebbe fatto sorridere d’altro, temo. Riccardo Claudio, così lo chiamavamo tutti, anzi, Riccardoclaudio, tutto attaccato, era un ragazzo piuttosto strambo, con quel suo tic di toccarsi sempre gli occhiali con la montatura spessa, di quelli che oggi definiremmo da nerd, esattamente nel punto che si appoggia sul naso, in continuazione. A posteriori credo di poter dire che avesse qualche problema mentale, non saprei dire esattamente quale, ma all’epoca per me e gli altri bambini che frequentavano la parrocchia appariva semplicemente strambo. Passava tutto il tempo con un bloc notes gigante in mano, a disegnarci su con una penna nera. Disegnava sempre e soltanto dei personaggi che si era inventato lui, i Pennuti, dei corvi antropomorfi, che componevano una sorta in interminabile romanzo a fumetti che passava da bloc notes a bloc notes. I Pennuti avevano degli enormi cazzi umani, questo penso di poterlo dire senza ombra di dubbio, ma all’epoca la cosa sembrava a tutti normale. O meglio, sembrava a tutti normale in apparenza, perché in realtà il non detto che ci accompagnava costantemente era di non stare troppo tempo con lui.
Apro una piccola parentesi, tanto ci siete abituati. Quando ero piccolo la gestione dei figli da parte dei genitori era un pochino diversa da quella di oggi. Non dico niente di nuovo, lo so. Per capirsi, vivevamo in uno stato di libertà che oggi sarebbe impensabile, non perché non ci fossero i medesimi pericoli, capiamoci, ma perché probabilmente c’era meno modo di controllarci, o forse anche meno necessità di farlo. Ricordo perfettamente che un mio carissimo amico si è fatto un piccolo gruzzoletto facendo vedere il pisello a un guardone che si appostava nel microgiardinetto che si trovava esattamente di fronte al nostro portone. Il tizio gli offriva dei soldi per fare quel semplice gesto, tirarsi giù pantaloni e mutande e mostrargli il pisello, senza che poi accadesse altro, e lui lo faceva. A quel punto il tizio gli allungava mille lire, un bel gruzzoletto, all’epoca. Oggi questo sarebbe oggetto di denunce, processi, processi mediatici e social ancor prima di arrivare in tribunale, o forse addirittura linciaggi. All’epoca ciò non è accaduto per il semplice motivo che i grandi, i suoi, i miei e gli altrui genitori, non lo hanno mai saputo.
Leggere quello che ho appena scritto mette i brividi, immagino. Perché apre a un abisso che non possiamo controllare, ma così andava il mondo a quei tempi, e tornando indietro nei decenni, immagino, andava ancora peggio. Noi ce la vivevamo con una certa naturalezza. Ci corazzavamo reciprocamente verso quella che sarebbe stata la nostra vita da adulti, zigzagando di fronte alle difficoltà e le brutture che la vita ci mettevano di fronte. Per dire, sempre in quegli anni un caro amico di mio fratello maggiore, Marco, otto anni più di me, si faceva di eroina. Non solo, si faceva di eroina in una piccola scala che congiungeva la via in cui abitavo io a una via soprastante, via Vittorio Veneto e via Oslavia, per gli anconetani in lettura, per cui mi è capitato spesso di incrociarlo mentre se ne stava semisvenuto su quelle scalette, il laccio emostatico sul braccio, la siringa caduta in terra. L’amico di mio fratello, Luca, si chiamava, non mi ha ovviamente mai dato fastidio, perché fondamentalmente era un ragazzo molto buono e perché ero il fratellino di Marco, ma io sono cresciuto con questa idea che ci si potesse ridurre così. Senza neanche star lì a immaginarmi chissà che possibilità remota. Lui abitava a venti metri da casa mia, e si faceva le pere sotto casa mia, mica era un alieno che viveva in un’altra galassia. Succedeva. Ci si conviveva. Come si conviveva con il tizio che regalava soldi se gli mostravi il pisello. Io, per la cronaca, non l’ho mai visto, il tizio, e non so se glielo avrei fatto vedere, il pisello. Non per timidezza o statura morale, ma solo perché avrei avuto difficoltà poi a gestire quei soldi che solitamente non avevo. I nostri genitori erano lì, presenti, ma probabilmente un po’ meno asfissianti di quanto non siamo noi oggi coi nostri figli. Il mio insegnante di prima elementare, quel maestro che facendoci ascoltare Il Lago dei Cigni di Ciakovskij ha in qualche modo segnato il mio destino, venne allontanato da scuola alla fine di quel primo anno scolastico, per noi, perché accusato di essere molesto nei confronti di alcuni alunni, così come poi successe anche al Direttore della scuola, uno che a pelle mi stava piuttosto antipatico. Io, questa cosa del motivo per cui vennero allontanati, l’ho scoperta solo recentemente, una decina di anni fa, durante un pranzo di famiglia. Me la comunicò mia madre, bofonchiando timidamente, come se mi stesse svelando una verità dalla quale avrei faticato a riprendermi. Sul momento mi incazzai, non tanto perché non mi fosse stato comunicato all’epoca, parlare di pedofilia a un bambino negli anni Settanta, suppongo, non era proprio cosa fattibile, quanto perché avessero aspettato i miei quarant’anni per mettermene a conoscenza. Ma quello era un po’ il modo con cui si affrontavano certi argomenti all’epoca, li si teneva nascosti, come se il non parlarne in qualche modo li disarmasse, li rendesse meno pericolosi. A pelle sapevamo che dovevamo girare al largo da quello che aveva il negozio che affilava coltelli, il tizio coi capelli rossi piuttosto acidello. A pelle sapevamo che dovevamo girare al largo dal tipo coi due chihuahua sempre in braccio, e oltre che a pelle anche perché mio padre mi aveva raccontato che era stato allontanato dal fare l’allenatore di una squadra di ragazzini perché faceva cose che non doveva fare. Insomma, ci si muoveva un po’ alla deriva, ma si andava avanti. Ho avuto un maestro molesto e un direttore pedofilo, par di capire, e un guardone pedofilo piazzato sotto casa, un amico tossico di mio fratello e tutta una serie di altre amenità che hanno reso la mia infanzia una infanzia non meno felice di quanto non sia stata, anche spensierata.
Di questa infanzia faceva parte anche questo ragazzo alto e strambo che disegnava in continuazione Pennuti col cazzo di fuori, e che era un cantautore. A tutte le feste parrocchiali, e visto che c’era e ancora c’è un bellissimo teatrino, all’occorrenza anche cinema, di feste parrocchiali ce n’erano sempre tante, molto spesso animate anche da mio padre, molto bravo nel leggere poesie in dialetto, questo prima che diventasse diacono e di colpo ritenesse evidentemente poco conveniente salire su un palco e far ridere, lui, Riccardoclaudio, saliva sul palco con una pianoletta, immagino Bompiani, e ci suonava le sue canzoni. Ricordo perfettamente che aveva un modo strano di suonare, e non sarebbe che potuto essere così. Usava solo tre dita per mano, indice, medio e anulare, con le quali faceva gli accordi. Io all’epoca stavo studiando musica, e il piano che avevamo in casa perché mia sorella faceva il conservatorio, era uno dei miei passatempi preferiti. Ma non sono mai riuscito a suonare senza usare il pollice e l’indice, perché è obiettivamente molto scomodo. Riccardoclaudio ci riusciva e faceva queste canzoni con base elettronica preimpostata e suoni molto sintetici. Qualcosa che si ispirava neanche troppo nascostamente a Alberto Camerini, che all’epoca era una vera e propria star. Un tipo strambo anche lui, Camerini, non a caso idolo del ragazzo strambo della parrocchia.
Non ho idea di che fine abbia fatto Riccardoclaudio oggi. Non so neanche se sia ancora vivo. Letizia, sua madre, probabilmente è morta, o sarà vecchissima, perché me la ricordo più grande dei miei che hanno superato l’ottantina. Lui, che di solito incontravo in giro per il centro, non l’ho più visto, ma va anche detto che non abito più in Ancona, e che quando ci vado non frequento molto i posti che frequentavo da ragazzino.
Frequento invece la musica, e forse anche perché sono cresciuto in un’epoca in cui era normale che un ragazzo salisse su un palco di una parrocchia, non di un centro sociale, per far sentire le sue canzoni strampalate a un pubblico prevalentemente anziano e comunque non attento alla musica di Alberto Camerini, senza che questo fosse vissuto come un gesto iconoclasta, una provocazione, semplicemente per quel che era, un ragazzo che suonava le sue canzoni, tendo a non farmi troppi problemi quando mi capita di ascoltare qualcosa che non rientri esattamente nei canoni. Anzi, provo sempre a cercare quello che non rientra esattamente nei canoni, perché di chi sponsorizza anche in maniera sfacciata solo quello che è nei canoni ce ne sono anche troppi.
Per questo, dovendo stilare la solita classifica dei dischi più interessanti usciti in quest’anno, pratica rituale che si compie a ogni fine anno, ho deciso di non nominare tutti quei lavori che vi sarà capitato in tutti i casi di ascoltare anche se non ve ne parlo ora io, concentrando la mia attenzione, e la vostra attenzione residua, arrivati fin qui passando immagino un po’ a fatica nei miei ricordi di infanzia, su artisti, anzi, su artiste che meritano tutta l’attenzione del mondo ma che, spesso solo per il fatto di essere donne, in qualche modo si muovono a margine del mercato e dei media.
Parto da domani, anche solo per dimostrare che non sono uno che vive costantemente voltato all’indietro, concentrato solo sul proprio passato. I primi due nomi che faccio non sono ancora usciti coi loro lavori, ma mi auguro lo facciano davvero presto, prestissimo. Le ho conosciute al Premio Bianca D’Aponte, esperienza fortissima e sconvolgente che mi è capitato di fare recentemente. Un premio voluto dai genitori della cantautrice che ne porta il nome, morta a soli ventitrè anni, poco prima di vedere il suo primo album dato alle stampe. Un premio dedicato alle cantautrici, fiore all’occhiello di quel mondo poco calcolato dei premi musicali. Un premio vinto quest’anno dalla cantautrice salentina Cristiana Verardo, di cui vi parlerò tra qualche giorno, ma che ha visto alternarsi sul palco del Teatro Cimarosa di Aversa tante brave artiste, come appunto le due di cui voglio parlarvi. Sono Viviana Strambelli, in arte Lamine, e Chiara Mariantoni, in arte ChiaraBlue. Due artiste in apparenza lontanissime, ma solo in apparenza.
Lamine, infatti, ha una scrittura decisamente contemporanea, vivida, che ben si sposa a una capacità interpretativa che arriva da lontano, dal suo essere stata giovanissima una attrice anche di un certo prestigio. Canzoni in cui dissimula un certo cinismo, controllato, e nelle quali apre all’ascoltatore le porte di un mondo notturno e sghembo di quelli dal quale uno non vorrebbe e dovrebbe mai uscire. Una voce importante, la sua, sia nel senso vocale che autoriale del termine, che meraviglia non sia già stata adocchiata da un qualche discografico lungimirante (questa è una frase cinica, perché discografici lungimiranti non ne esistono più, da tempo).
ChiaraBlue è in apparenza più spoglia, nuda, perché non ha remore a mostrarci la sua anima e le cicatrici che la sua anima indossa. Ha una scrittura matura, che spazia da suoni che richiamano la nostra tradizione tanto quanto quelle dei paesi al sud del mondo, musica che la agevola nel raccontare storie personali che assurgono al ruolo impegnativo di universali. Dinosauri, per dire, è un brano che avrebbe potuto portare al successo uno come Paolo Conte, lo dico senza paura di smentita, e che spero porti al successo lei, sempre che sia il successo quello che cerca.
Se dico che le due artiste in questione sono solo apparentemente distanti è perché il loro modo di interpretare l’idea di canzone d’autore è invece molto meno lontano di quanto non sembri. Lamine pure si mostra nuda, forse in maniera anche più spudorata, perché consapevole di essere lì, spoglia di tutti quei trucchi che si possono usare per nascondersi. Sentitevi la sua Penna Bic, premio della critica al Premio Bianca D’Aponte, per credere.
Due artiste, Lamine e ChiaraBlue, di cui avevamo decisamente bisogno, non perché chi scrive sia affezionato a un’idea antica di verità, la verità ha rotto il cazzo, quanto perché, anche nella finzione, è la sincerità che credo sia necessaria. La possibilità rincorsa di raccontare qualcosa che a noi suoni come credibile.
Per questo, ma non solo per questo, torno a caldeggiarvi anche SuperFluo di Irene Ghiotto, ormai uscito sul mercato. Album del quale vi ho più volte parlato e che non fatico a definire il migliore uscito in questo 2019 per il resto non esattamente edificante. Una scrittura importante, la sua, degna di essere annoverata tra i grandi della nostra canzone. Una scrittura fortemente ironica, iconica e femminile.
Come è femminile, seppur di tutt’altra natura musicale, quella di Adel Tirant. Il suo lavoro, Adele e i suoi eroi, di cui vi ho parlato tempo fa, è uno dei lavori più originali apparsi recentemente, una scrittura antica che però ha fatto propri vezzi e tic del presente, qualcosa che richiama il teatro, e lo dice uno che al teatro guarda sempre con amore.
E visto che di amore parlo, vorrei chiudere questa breve carrellata, perché gli album quali Memorie dal Futuro dei Leda, Hurrah di Mimosa Campironi, C’è Qui Qualcosa Che Ti Riguarda di Patrizia Laquidara e Go Go Diva de La Rappresentante di Lista, tutti a loro modo capolavori, risalgono al 2018, e di Niente a Metà di Silvia Oddi e Piovesse Sempre Così di Giua ho già parlato in precedenza, andateveli comunque a recuperare, vorrei chiudere questa breve carrellata con un album che, se mai vi foste disamorati della musica, vi farebbe cadere in ginocchio già al primo ascolto, seduta stante: Saudagoria di Sara Romano.
Potrei fermarmi qui, perché credo che la parola amore racchiuda in sé tutto quello che io provo nei confronti delle canzoni di questa cantautrice siciliana che, fosse nata in California negli anni cinquanta, oggi sarebbe tranquillamente nello stesso posto metaforico in cui siamo soliti mettere artisti quali James Tyalor o, anche più, Carly Simon. Una artista capace con una chitarra, un violoncello e soprattutto la sua voce e la sua penna, di portarci in un altrove fatto di sangue e terra, di sudore e occhi che brillano, di vita pulsante. Un’idea conciliatoria di canzone come legame tra noi e le radici, i piedi nudi piantati in terra, lo sguardo fiero rivolto agli occhi di chi abbiamo davanti.
Dell’album nuovo di Missincat, 10, vi parlerò nei prossimi giorni, ma anche questo rientrerebbe in un ipotetico “il meglio del 2019”, come di quel “meglio di” fa ovviamente anche l’album con il quale si è aperto quest’anno, quel Dove Non Si Tocca di Eleviole? che ha provato, riuscendoci, attraverso una serie di filastrocche per adulti, a riportarci a quando, appunto, eravamo bambini e guardavamo al mondo senza quei filtri e qui paraocchi coi quali oggi siamo soliti mostrarci e guardare agli altri, come facevo io al teatrino di San Francesco alle Scale, quando bambino mi chiedevo come fosse possibile tirare fuori bella musica senza usare il pollice su quella pianoletta Bontempi.