Se Nevermind dei Nirvana è la nostra adolescenza, The Colour And The Shape e There Is Nothing Left To Lose dei Foo Fighters fanno parte di quel passaggio successivo durante il quale si è ancora più suscettibili nella scelta della musica da portare con sé mentre si ciondola verso scuola o verso il parco. I primi lettori mp3 avevano fatto la loro comparsa e le audiocassette iniziavano a essere un vecchio ricordo, quasi il suggello di un ricambio generazionale che ci avvicinava all’era hi-tech nella quale oggi siamo completamente immersi.
Il 2 novembre 1999 There Is Nothing Left To Lose usciva al concludersi di un periodo travagliato per Dave Grohl. 5 anni prima era morto Kurt Cobain e il dolore era ancora forte; il batterista William Goldsmith aveva lasciato la band e con lui lo storico amico Pat Smear – chitarrista turnista dei Nirvana nel 1993 – e i Foo Fighters erano ridotti a 3 unità: Dave, Nate Mendel e Taylor Hawkins.
I lavori furono possibili grazie all’anima factotum di Grohl, che per ovviare alla defezione dei due elementi aveva registrato tutte le chitarre dei nuovi brani. Taylor Hawkins salvò letteralmente la band a partire dal precedente The Colour And The Shape: arrivava dalla band di Alanis Morrissette e accompagnò i Foo Fighters in tutto il tour promozionale. C’è da sapere, infatti, che Grohl non era soddisfatto della performance in studio dell’ex batterista Goldsmith, dunque si sedette dietro le pelli e registrò nuovamente tutte le tracce di batteria del disco di Monkey Wrench, confermando il dissapore con il suo musicista.
Ora, con There Is Nothing Left To Lose, le cose andavano meglio e ai Foo Fighters fu possibile farsi spazio tra altre grandi release di quell’epoca: il 1999 era l’anno di Californication dei Red Hot Chili Peppers, The Fragile dei Nine Inch Nails, Significant Other dei Limp Bizkit ma soprattutto di The Battle Of Los Angeles dei Rage Against The Machine e Make Yourself degli Incubus. C’erano anche quei “poppunkettari” dei Blink 182 che con Enema Of The State avevano dato nuovo ossigeno al punk mainstream, ma i Foo Fighters avevano abbastanza vigore per presentare un disco forte e intenso.
Dietro l’ironia che i Foo Fighters mostravano nei videoclip di Learn To Fly e Breakout, è bene saperlo, c’erano anche tante riflessioni. Secondo il gossip, il brano di apertura Stacked Actors era un modo gentile di Dave Grohl per prendere a sberle Courtney Love per un risentimento che durava dalla morte di Kurt Cobain, ma Dave Grohl smentì spiegando che il brano raccontava un mondo di plastica per brevità chiamato Hollywood.
I fortunati estratti da There Is Nothing Left To Lose, Breakout, Learn To Fly e Next Year, continuano a essere ottimi pezzi. Il primo, colonna sonora del film Io, Me & Irene, è un brano punk rock ad alto concentrato di adrenalina: chitarre a tutto volume e newton spinti al massimo sulle percussioni, ma soprattutto la scarica elettrica della linea vocale di Dave Grohl in una delle migliori performance.
Il secondo è squisitamente pop rock e d’impatto, con chitarre leggere e dinamiche che non fanno troppo rumore, radiofonico al punto giusto come del resto avviene in tutte le produzioni dei Foo Fighters. Pur collocandosi nei contesti alternative, la band formata da Dave Grohl dopo la fine dei Nirvana è un prodotto commerciale esemplare, che in tutta l’opera iniziata nel 1994 ha saputo coniugare l’emotività decadente della musica di nicchia con tutto ciò che il pubblico voleva sentire.
Il terzo, infine, con quel basso che esegue in scioltezza la scala maggiore che è tipica dei primi corsi di chitarra, è una ballata dolcissima e immediata che si distanzia dai primi due singoli, mostrando la parte più soft della band.
I 2000 si approssimavano e There Is Nothing Left To Lose dei Foo Fighters chiudeva il Novecento come ultimo album completamente riuscito prima di One By One (2002), deludente per il pubblico e per la stessa band. Non a caso, Dave Grohl si affacciò verso gli orizzonti dell’ex Kyuss Josh Homme e insieme registrarono Songs For The Deaf dei Queens Of The Stone Age. Oggi, tuttavia, i “foos” restano una delle band più rappresentative di quanto resta di Seattle e degli anni ’90, due realtà di cui sentiamo ancora il bisogno.