L’altro giorno, quando il Friday for Future era prima il presente, poi il passato prossimo, ho letto davvero di tutto riguardo quello che milioni di ragazzi e ragazze in tutto il mondo stanno provando a fare. Ho letto soprattutto lo scherno, il fastidio, il disprezzo da parte di chi non appartiene a quella generazione, ma più alla mia o alla precedente. Ho letto parole dure, anche da parte di insospettabili.
Sarà perché i miei figli più grandi, diciotto e quattordici anni, hanno preso parte alla manifestazione di Milano, la città in cui viviamo, o sarà più semplicemente perché ho sempre pensato che la presa di coscienza non può che passare dalla strada, dalla piazza, ho pensato di scrivere un Tweet. Poche parole, quindi, destinate a scandalizzare.
Queste.
Non avere più bottiglie di plastica e tornare a quelle di vetro è comunque qualcosa. Con le bottiglie di plastica non si possono fare le molotov.
Chiaramente l’idea era di giocare sull’ambiguità. Perché quelle poche parole erano facilmente fraintendibili. Potevano sembrare l’auspicio di un ritorno a una piazza violenta, quella delle molotov, appunto. Potevano sembrare un dire che questa corsa al “plastic free” è forse esagerata, perché non tutti i mali sono arrivati per nuocere. Potevano quindi dire che queste manifestazioni pacifiche sono inutili, come anche tutti i tentativi di fare la rivoluzione senza rivolta.
Non ho fatto questo tweet, perché l’ambiguità mi è difficile in assenza di tante parole. Ma ne ho preso spunto per iniziare questo scritto, che proprio sull’ambiguità delle parole vuole provare a ragionare.
Tanti anni fa, per l’esattezza ventitré anni fa, quando ero ai miei esordi letterari, e quando non passavo ora che non fosse dedicata alla letteratura, la mia e soprattutto quella degli altri, ho cullato l’idea di scrivere un libro che si sarebbe dovuto intitolare “ 23 Modi Per Uccidere Un Papa”. Non ricordo esattamente perché i modi sarebbero dovuti essere 23, ma ricordo perfettamente di quali letture quel mio progetto era figlio. Erano anni in cui il genere, inteso come genere letterario, quindi noir, fantascienza, giallo, era stato sdoganato, e chiunque si occupasse di letteratura, quandomeno di narrativa, sembrava dovesse provare a farci i conti.
Erano anche anni di contaminazioni estrema tra alto e basso, con quello che all’epoca veniva chiamato Avant-Pop che provava a portare avanti il postmoderno, negli Stati Uniti con assai più risultati che in Italia. Io che allora mi nutrivo quotidianamente alla tavola dei vari David Foster Wallace, William Vollman, Mark Leyner, Douglas Coupland, Bret Easton Ellis, William Gibson, Lewis Shiner, ma anche Don De Lillo o Thomas Pynchon non potevo che provare a identificare uno dei punti nevralgici della nostra recente storia per farne il nucleo palpitante della mia narrativa, esattamente come De Lillo avrebbe fatto in seguito con avvenimenti salienti della storia americana o, per citare un autore a me vicino e caro, Giuseppe Genna avrebbe fatto con il caso di Alfredino Rampi a Vermicino. L’attentato a Papa Giovanni Paolo II da parte di Ali Agcà è sicuramente stato uno di questi, e su quello mi sarei voluto soffermare. Ho anche cominciato a scriverne, non più nello stile nannibalestriniano che hanno accompagnato i miei primi libri, Furibonde Giornate Senza Atti D’Amore e Aironfric, ma con una lingua più mia, come in Questa Volta Il Fuoco, mio primo romanzo.
In realtà nessuno di quei libri al momento era ancora stato pubblicato, ma stavano tutti lì, da qualche parte, in attesa che qualche editore li leggesse. Nel mentre, però, il mio nome aveva cominciato a girare, grazie a qualche rivista con la quale avevo cominciato a collaborare e anche e soprattutto alla mia partecipazione al laboratorio di scritture Ricercare, a Reggio Emilia. Riguardo i miei primi racconti è singolare come il mio primo racconto pubblicato in assoluto, in uno storico numero de Il Maltese Narrazioni dedicato al cantautore Garbo, numero che vedeva presenti quasi tutti i Cannibali, mi presentasse come Marco Monina, cioè con il nome di mio fratello maggiore.
Non per una mia scelta dadaista, ma per un errore di Marco Drago, il direttore della rivista letteraria, che conosceva entrambi. Altrettanto curioso che il mio primo racconto recensito da un quotidiano importante, il Corriere della Sera, in un articolo a firma di Carmen Covito, all’epoca fresca dell’incredibile fama dovuta al suo romanzo La Bruttina Stagionata, la recensione di una antologia uscita per la casa editrice erotica ES dal titolo Sesso Alieno, antologia a cura di Paolo Bianchi che conteneva il mio racconto Hiruko L’Amante Virtuale, scritto così, senza maiuscole e senza virgole, proprio alla Nanni Balestrini, racconto dedicato a un Tamagochi sessuale, ecco, curioso che quella recensione parlasse benissimo di me e del mio racconto, ma ne parlasse nei termini di Michele Morrina, ancora una volta destinato a un refuso importante.
Comunque, all’epoca venni contattato da Jacopo De Michelis, che era un editor e agitatore culturale, per prendere parte a una antologia che sarebbe poi uscita per Fernandel dal titolo Cuore Nero- Geografie Del Noir, subito dopo essere stato chiamato dallo stesso Marco Drago, non gli ho mai chiesto se per stima o per i sensi di colpa per il nome sbagliato, per partecipare a una antologia destinata all’edicola dal titolo La Morte Stramba, nella collana Libri dell’Altra Italia di Avvenimenti. In quest’ultima finirà il primo racconto scritto su attentati al Papa, un delirio dal titolo A Perfect Day in cui raccontavo di un killer che fallisce la sua missione a Loreto, nella mia terra. Nella seconda finirà Nano Pupì Bumba Banzai, e su questo vorrei soffermarmi.
L’idea mi era venuta dal titolo, che faceva proprio un tipico modo di dire della mia città, Ancona. Nano Pupì Bumba. È un modo di dire che potrebbe essere tradotto con un classico “Sì, stai fresco!” e che letteralmente significa “Ciao, piccolo, prendi l’acqua”. Nano è il saluto, pupì è un vezzeggiativo per piccolo, pupetto, e bumba è l’acqua. Per un non anconetano, pensavo, sembrava più uno scioglilingua orientale, di qui l’idea di unirci la parola banzai. La trama del racconto era semplice, siccome all’epoca Papa Giovanni Paolo II, era ancora lui il Papa, era solito prendere in braccio i bambini durante le sue visite e i suoi bagni di folla, il killer assoldato, perché sempre di attentati si doveva parlare, era un nano della Yakuza che una volta preso in braccio si sarebbe immolato come un kamikaze, facendosi saltare in aria. Un’idea folle, probabilmente, ma ripeto, era l’epoca di Mark Leyner e dei suoi racconti surreali carichi di riferimenti alti e bassi e di David Foster Wallace e le sue ragazze coi capelli strani, ben prima della pubblicazione dei suoi libri, sia chiaro. L’idea piacque a De Michelis, che infatti incluse il racconto nell’antologia, anche se l’idea del nano kamikaze era davvero surreale.
Ora, preso atto che non ho mai scritto il racconto 23 Modi Per Uccidere Un Papa e che oggi di Papi ce ne sono addirittura due in vita, è sulla faccenda di come le idee strampalate, o che almeno ci sembrino tali, a volte siano in realtà poi superate dalle realtà. No, nessuno ha provato a far saltare in aria Papa Francesco fingendosi un poppante, ma è di questi giorni la notizie di una ventiduenne psicopatica americana che si è finta una bambina di sei anni, ha falsificato i propri documenti, è finita nel giro delle adozioni, e una volta finita in una famiglia ha provato a uccidere i genitori adottivi con un coltellaccio da cucina. A leggerla lì, nero su bianco nello schermo di uno smartphone o sulla carta di un quotidiano, perché un po’ tutti hanno ripreso la notizia, c’era da vacillare, da non crederci. Una delle tante fake news. Invece, andate a farvi un giro sull’impeccabile Bufale.net, sembra proprio che si tratti di una notizia vera. Una nana psicopatica di ventidue anni si è finta bambina, è stata adottata e ha provato a squartare a coltellate i propri genitori adottivi.
Ora, proviamo a unire i puntini, un po’ alla Steve Jobs.
Sono partito parlando di bottiglie di plastica e di molotov. Ho tirato in ballo l’ambiguità e le sue trappole. Sono passato, come ormai faccio ogni volta, a parlare del mio passato, per arrivare a parlare di notizie incredibili che girano intorno a dei nani. Non ho aperto una lunga parentesi, che però sarebbe stata assolutamente attinentissima, che riguarda proprio i nani. Ho prima citato Giuseppe Genna, intellettuale fondamentale della mia generazione.
Io e Giuseppe, mio coetaneo che con me ha condiviso imprese narrative e non nel corso degli anni, nutriamo una nostra passione per quel che riguarda i nani. Se vi è capitato di sfogliare il nostro libro Costantino E L’Impero, una finta biografia di Costantino Vitagliano uscita nel 2005 che in realtà provava a raccontare con qualche anno di anticipo il mondo delle Olgettine, del Caimano, evidentemente non riuscendoci appieno. Se vi è capitato di sfogliare quel libro non vi sarà sfuggita la citazione posta in esergo di Joe R. Lansandale: “La prima cosa che notai fu un nano seduto sul letto. Credo sia normale, notare subito un nano”.
Come, se siete tra quanti seguono Genna, e se non lo siete è un problema serio che potete facilmente risolvere iniziando a seguirlo, vi sarà capitato di leggere il racconto di una nostra epica presentazione del suddetto libro all’IperMercato di Voghera, non-luogo augeiano e arbasiniano che più non si può, un racconto a quattro mani, come il libro, che si intitola Fate Parte Dell’Ambaradan in cui due nani, marito e moglie, compaiono davvero, dietro un carrello carico di prodotti, lì nell’IperMercato di Voghera, epifania nell’epifania. Ma più che altro, se seguite Genna vi sarà capitato di vedere le citazioni lynchiane che costellano i suoi scritti, e un po’ anche i miei, e dire David Lynch e pensare a un nano che parla al contrario è un tutt’uno, converrete con me.
Sono partito parlando di bottiglie di plastica e di molotov, quindi. Ho tirato in ballo l’ambiguità e le sue trappole. Sono passato, come ormai faccio ogni volta, a parlare del mio passato, per arrivare a parlare di notizie incredibili che girano intorno a dei nani. L’ho fatto con la consapevolezza, mia non vostra, intendiamoci, che si può provare a scrivere online, quindi su un mezzo effimero, volatile, provando a andare un po’ oltre. Non dico alla Rick Moody, anche se lui sta lì, da qualche parte, che in Hotel del Nordamerica prova riuscendoci a elevare la forma recensione online a vera e propria letteratura, perché, per dirla con parole sue, “Avevo la sensazione che qualsiasi opera di finzione che ignorava internet e la possibilità di una vita online non sarebbe riuscita a descrivere il luogo e e il tempo in cui ci troviamo ora”. Col che non intendo dire, anche se lo sto in qualche modo facendo, che sto scrivendo un romanzo articolo dopo articolo, un memoir 2.0, Rick Moody ti devo una birra, ma che quantomeno sto provando a partire da lontano per arrivare a parlare dell’oggi, e l’oggi di cui parlo è spesso assai più fantasioso di quanto io, come narratore, sia mai stato e sarei mai potuto essere.
Perché proprio mentre sto qui che penso a come a volte io abbia forzato la mano al lettore, usando iperboli, paradossi, giocando su una lingua che flirta sia col parlato che col letterario, ricorrendo a citazioni difficili da cogliere come a esempi volgari, banali, scontati, usando, soprattutto, una lingua assolutamente iperbolica, infarcita di relative, difficile da seguire, volutamente ostile e ostica, ecco, mentre sto qui che penso a come a volte io abbia forzato la mano al lettore ecco che la realtà mi supera bellamente a destra.
Perché succede che lo scissionista Matteo Renzi, uscito dal gruppo come il Jack (in realtà John) Frusciante che proprio venticinque anni fa vedeva la luce in libreria, anche quello destinato a spingermi verso la vita da scrittore, l’ho già raccontato da queste parti, ecco, mentre lo scissionista Matteo Renzi usciva dal gruppo esattamente lo stesso giorno in cui anche Tommaso Paradiso usciva dal gruppo, l’uno lasciando un vocale sul Whatsapp di Zingaretti, scopriremo poi, e affidando a Twitter le comunicazioni ufficiali, con un tweet che linka una canzone di Jovanotti, tanto per non essere postmoderni, l’altro ricorrendo alle transitorie storie di Instagram, andando a chiudere una serie di sproloqui vagamente egoriferiti con la citazione di quella che, oggi lo sappiano, è la sua prima canzone da solista, Non avere paura.
Entrambi, quindi, lo scopriremo di lì a poco, andando a rendere pubbliche scelte fatte in antecedenza, quando i tempi a nessuno sembravano maturi, con Renzi che ha depositato il marchio Italia Viva, il nome del suo nuovo partito, il nove di agosto, quando il governo era stato sì silurato da Salvini, ma ancora non si sapeva nulla di certo a riguardo, Paradiso sicuramente in studio a preparare la canzone che sarebbe diventata la colonna sonora della seconda stagione di Baby ben prima di andare a cantare coi suoi ormai ex soci al Circo Massimo, perché questo ci dicono i tempi necessari a scrivere, registrare, masterizzare, depositare e poi dare a chi ha compito di caricarla nelle piattaforme di streaming, parliamo sempre di agosto. Quando quindi Renzi provava a concertare un’alleanza tra Pd e M5S e Paradiso recriminava anche contro chi scrive riguardo ai numeri del Love al Massimo entrambi sapevano che il futuro era altrove, già scritto ma non ancora raccontato.
Ma davvero cortocircuitando tutto, andando quindi a superare ogni fervida immaginazione, ecco che Matteo Renzi, dopo aver fatto suo Jovanotti con quel Tweet, ma Jovanotti è da sempre suo e viceversa, ora fa suo anche Paradiso, e per fare ciò sceglie un post che nessuno sano di mente avrebbe mai pubblicato, figuriamoci condiviso. Un post in cui Paradiso esegue in playback Non avere paura, canzone che è assai debitrice nei confronti di Tu di Umberto Tozzi, nella scrittura, e nei confronti di No More I Love You’s di Annie Lennox negli arrangiamenti, un bicchiere di vino in mano, il conforto del playback almeno per le nostre orecchie, per una volta risparmiate delle stonature del nostro.
Una roba inguardabile, per l’ego che trasuda, e inascoltabile, perché nonostante il playback è evidente che siamo in zona “roba fatta col culo”. Che quando le due notizie, le due notizie delle rispettive fuoriuscite dal PD e dai Thegiornalisti, hanno cominciato prima a girare e poi a accavallarsi, come molti, ho pensato di scriverci su qualcosa che corresse in parallelo, prendere i classici due piccioni con una fava, la mia, ma ho poi desistito, perché temevo di finire in zona paradosso eccessivo, esagerato. Come dire che con le redivive bottiglie di vetro ci si possono fare le molotov. O come uno scrittore che si immagina di far saltare in aria il Papa per mezzo di un nano imbottito di esplosivo travestito da poppante, o una psicopatica nana di ventidue anni che per poter perpetuare il proprio disegno criminale si finga bambina e si faccia adottare dalle sue prossime vittime. Chi mai potrebbe crederci?