Dopo Civiltà perduta, storia di un padre e un figlio che si smarriscono nella giungla preda delle loro ossessioni, il nuovo film di James Gray, Ad Astra racconta di un figlio alla ricerca del padre, di passioni intensissime, negate persino a sé stessi, che il vasto fondale del cosmo riesce appena a contenere. Perché il mistero più grande si annida non nell’ultima frontiera siderale, ma nello spazio intimo e sconfinato delle emozioni umane.
Il maggiore Roy McBride (Brad Pitt, anche produttore), apparentemente sembra tutto tranne che preda di emozioni e ossessioni, grazie a un autocontrollo quasi sovrumano, col battito cardiaco sempre sotto le ottanta pulsazioni. In pratica, l’astronauta perfetto. Eppure, già nella prima sequenza di Ad Astra, lo vediamo correre un rischio enorme. A causa di uno sbalzo di energia perde l’equilibrio e, dall’esterno della navicella spaziale su cui sta lavorando, precipita per chilometri verso la Terra. Certo, Roy si salva grazie al sangue freddo e all’apertura provvidenziale del paracadute. Però la lunghissima caduta, surrettiziamente, si fa spia d’un equilibrio non esattamente inscalfibile.
La tempesta elettrica che ha causato l’incidente è dipesa da esplosioni radioattive la cui fonte è stata individuata su Nettuno. Il pianeta su cui, 16 anni prima, si sono perse le tracce della missione Lima, guidata dal leggendario scienziato Clifford McBride (Tommy Lee Jones), padre di Roy, partito molti anni prima alla ricerca di forme di vita aliene. Il comando militare sospetta che Clifford sia ancora vivo e rivesta un ruolo importante nelle interferenze, che potrebbero avere conseguenze devastanti per la Terra. Perciò Roy viene spedito in missione, attraversando i due ultimi avamposti di civiltà, la Luna e Marte, per inviare dal pianeta rosso un messaggio al padre tramite un’avanzata tecnologia laser.
Non è un incarico come un altro: perché la partenza del padre, quando Roy era solo un adolescente, venne vissuta dal ragazzo come un abbandono, col fondato sospetto che Clifford non nutrisse un autentico affetto verso la sua famiglia. Quel trauma, seppellito sotto una superficie di assennatezza recitata, ha trasformato Roy nell’esatto duplicato paterno: un professionista integrale, spassionato e produttivo, che antepone il suo lavoro a qualunque altra cosa – infatti la moglie l’ha lasciato.
Ciò gli permette di sottoporsi con tranquillità ai continui test psicologi, che lui supera brillantemente: una sorta di autoanalisi-confessioni, con il giudizio emesso da una macchina che ne monitora continuamente lo stato fisico ed emotivo. E come da procedura, anche lui insieme agli altri astronauti assume degli stabilizzatori dell’umore, che aiutano a reggere lo stress dei lunghi viaggi nello spazio in assenza di gravità. Le procedure mirano a trasformare gli esseri umani in macchine di pura razionalità, depurandole dagli intralci emotivi.
Roy sembra la macchina più efficiente di tutte. Almeno fino al giorno in cui deve confrontarsi col fantasma del padre – e con sé stesso, naturalmente. Il racconto di Ad Astra è organizzato da James Gray secondo una sottile scansione dialettica: gli ambienti asettici suggeriscono l’ordine mentale in cui si muove l’esistenza di Roy. Il viaggio iniziatico intrapreso però è pieno di tracce dissonanti, che scavano sotto la superficie tranquillizzante della logica facendo riemergere il lato irrazionale del protagonista, e dell’universo che attraversa. Così appaiono all’improvviso degli aggressivi babbuini, che simboleggiano una parte selvaggia inconscia. E sulla faccia oscura della Luna, altra raffigurazione della parte sotterranea della personalità, dei feroci pirati cercano di uccidere Roy.
Il suo umore, progressivamente, subisce l’influsso di tutti i pianeti che attraversa, e dall’iniziale apatia si colora delle dominanti cromatiche del film, cui corrispondono stati emotivi mutevoli, dal giallo iniziale al grigio della luna, sino al rosso di Marte e al blu freddo di Nettuno, in cui affonda il momento terminale del viaggio di Roy, alla scoperta dello sconvolgente mistero legato alle scelte paterne.
La forma e le scenografie di Ad Astra sono eleganti, elusive, il ritmo è cerebrale e compassato. La sostanza però è un’altra. Gray crea un racconto di sentimenti rappresi, cupo e inquietante. E per questo stona il finale troppo conciliante, servito da un protagonista, Brad Pitt, che solo in parte riesce a rendere il complesso spettro emotivo del suo personaggio.