Rambo: Last Blood sin dal titolo si collega idealmente al primo film della serie, il cui titolo originale era First Blood, dal titolo del libro di David Morrell da cui era tratto. Il quale Morrell, una volta visto il film, ha commentato di essere imbarazzato al pensiero che il suo nome possa essere associato a un film del genere. In effetti la quinta incarnazione di Sylvester Stallone del suo leggendario veterano del Vietnam è un’opera di violenza efferata, a tratti ripugnante, servita da una sceneggiatura, firmata dall’attore e Matthew Cirulnick, molto elementare, che pare riesumata dagli action movie iperbrutali e a psicologia zero degli anni Ottanta.
Il prologo di Rambo: Last Blood, diretto da Adrian Grunberg, offre una prospettiva interessante, che quasi capovolge la storia pregressa del personaggio. Il soldato la cui vita guerriera aveva reso un vagabondo tormentato e sradicato, una volta invecchiato ha ritrovato casa. Un ranch dell’Arizona, un tempo appartenuto al padre, nel quale Rambo vive insieme a una governante messicana e la sua nipote Gabrielle (Yvette Monreal), che lo chiama “zio” e lo adora, ricambiata. L’eroe ha finalmente una famiglia e pare acquietato nella sua dimensione da moderno cowboy, che rende esplicita una tensione costantemente presente nella saga, ossia l’identificazione del vero maschio americano con l’uomo della frontiera, che possedeva una saggezza e ideali riconoscibili, che s’erano sbriciolati tra le mani dei soldati traumatizzati dal Vietnam, e non per colpa loro.
L’apparente serenità è incrinata da alcuni dettagli della vita del nuovo Rambo: su tutti quel complicatissimo dedalo di cuniculi che l’eroe ha scavato sotto il ranch, nel quale ha stipato ciò che resta del suo arsenale e in cui forse, lontano da occhi indiscreti, riaffiora di tanto in tanto quell’altra parte, sofferente e angosciata, che continua ad agitarsi sotto l’autocontrollo di superficie.
Inevitabilmente la furia repressa riesplode. La miccia è il viaggio che Gabrielle, disattendendo gli ammonimenti di Rambo, fa verso il Messico, alla ricerca del padre che l’ha abbandonata bambina. La ragazza, giunta oltreconfine, viene rapita da un’organizzazione criminale gestita da due terribili ceffi, i fratelli Martínez, drogata e obbligata a prostituirsi. Rambo si mette sulle sue tracce: e comincia la mattanza.
Rambo: Last Blood è composto da due film agli antipodi: il western crepuscolare e il revenge movie. Solo che il secondo ruba completamente la scena al primo, annegando la storia in un profluvio di sequenze quasi gore, con dettagli raccapriccianti – il sangue del titolo è purtroppo letterale e copioso. Così si dissolvono i presupposti della vicenda, che con qualche ragione riannodavano il personaggio ormai settantenne alla psicologia distorta ma sfaccettata del primo Rambo di Ted Kotcheff, che riusciva a fotografare in maniera sufficientemente ambigua una fase di passaggio della storia americana tra anni Settanta e Ottanta.
Nel primo Rambo, però, moriva una sola persona e accidentalmente, a dimostrazione di una riflessione di fondo sul tema della violenza. Qui invece il numero di omicidi è incalcolabile. Viene ribaltata anche la filosofia del quarto episodio John Rambo del 2008, anch’esso efferato – un singolare computo contava 236 uccisioni nel film –, ma di una violenza volutamente insostenibile, attraverso la quale Stallone, che di quel film era anche regista, mostrava con logica elementare ma a suo modo efficace l’orribile crudeltà della guerra.
Rambo: Last Blood cerca purtroppo l’adesione compiaciuta dello spettatore, attraverso una escalation di crudeltà. La cui giustificazione è, da un lato, il dolore dell’eroe e la sua legittima ricerca di giustizia (o vendetta?). Dall’altro l’impresentabilità degli avversari, che meritano il destino che li attende, dei cattivi talmente parossistici da sconfinare nella parodia involontaria. Il film non può che scatenare i suoi momenti più truci nelle gallerie sotterranee, che Rambo trasforma in un’implacabile trappola per topi. Nella quale, a parte i nemici uccisi uno dopo l’altro, il vero topo intrappolato resta Stallone (col il suo alter ego), che si costringe oltre la boa dei settant’anni a recitare la parte ormai grottesca dell’eroe inscalfibile.