Non c’è un carnevale, un circo o una galleria delle maschere che non comprenda il personaggio di Pierrot. Subito riconoscibile per la casacca bianca, il cappello morbido nero, le calze bianche e i bottoni neri, Pierrot è soprattutto famoso per la lacrima dipinta sulla guancia, segno indelebile del suo animo malinconico e dei suoi amori impossibili e incomprensibili, quello per Colombina e quello per la luna. Tutti abbiamo, chi più chi meno, una certa esperienza di lacrime, quelle legate ad un dolore o ad un ricordo struggente, ma nessuno descriverebbe se stesso come “quello che piange”, giacché per fortuna abbiamo una rosa più ampia di esperienze e una gamma espressiva più ricca. Questo non avviene per il Pierrot che non cambia la propria maschera e non rinuncia a mostrare quel particolare stato d’animo. Per quanto raffinato e degno d’attenzione, il personaggio del Pierrot appare spesso fuori luogo, soprattutto quando piazza quella sua lacrima senza alcuna ragione plausibile, magari in quei contesti dinamici, ironici e festosi nei quali non penseresti di trovarla. Purtroppo, la “sindrome del Pierrot” si sta diffondendo anche in ambito musicale, giacché sempre più spesso – soprattutto in quei talent show nei quali la prestazione canora viene condita con filmati, racconti di vita, confessioni, giudizi salaci, polemiche e ovazioni del pubblico – gli artisti spendono lacrime in abbondanza. Piangono prima della performance, oppure durante o alla fine della stessa magari tra le braccia di qualche concorrente solidale. In ogni caso, piangono. La cosa deve risultare efficace dal punto di vista televisivo perché tutto sembra costruito in modo tale che, intorno alla performance canora, qualche lacrima possa saltar fuori e possa essere catturata dalle telecamere, attentissime nei primi piani a raccogliere i frutti preziosi della commozione (un po’ come in altri momenti della storia era avvenuto con quelle ampolle utilizzate per far tesoro delle lacrime di qualche poeta o di qualche influente personalità). Il fenomeno merita una riflessione perché, ferma restando la libertà di un artista di commuoversi se qualcosa lo tocca profondamente, esiste una differenza tra l’intensità e l’espressività. Il pianto sulla scena ha una sua intensità, che tuttavia non sempre riesce ad essere comunicativa e coerente con i contenuti stessi della canzone. Qualche anno fa, durante un concorso, capitò che un giovane cantante si commuovesse durante l’esecuzione del brano di De Gregori “Generale”. Interrogato su quale aspetto del testo lo aveva così profondamente toccato, il giovane rivelò che, in realtà, non sapeva il significato del testo, ma che nondimeno qualcosa di esso lo aveva turbato. Quelle lacrime erano probabilmente l’effetto di un particolare stato emotivo, di una tensione incontrollata o magari di un’espediente scenico per risultare “intenso”, ma non avevano attinenza con la canzone, non la valorizzavano e non ne trasmettevano il contenuto. I maestri di recitazione e di canto raccomandano agli artisti di governare i sentimenti, di non compiacersi delle proprie emozioni: se un qualcosa di toccante c’è, deve essere il pubblico a riconoscerlo e a commuoversi. Esagerare con abbracci, singhiozzi ed occhi lucidi non migliora la comunicativa dell’artista e non lo aiuta a costruire una personalità carismatica. Il malinconico Pierrot ha qualcosa di eroico e decadente, ma porta con sé una pericolosa ambivalenza: la monotonia di quella lacrima, l’invadenza di quel segno caratteristico gli ha guadagnato nel tempo anche un’altra definizione, quella meno nobile di “pagliaccio triste”.