L’altra sera io e mia moglie ci siamo visti l’ultima puntata della seconda stagione di Big Little Lies. Non seguiamo molte serie tv, insieme, perché quattro figli ci impediscono di stazionare troppo a lungo sopra il divano, e perché, in realtà, non ce ne sono molte che incontrino i gusti di entrambi. Big Little Lies è una di queste, anche se entrambe le stagioni sono durate decisamente troppo poche.
Comunque, stavamo vedendo l’ultima puntata, è piuttosto tardi, superata la mezzanotte. È quel classico momento in cui, in genere, nelle serie tv si prepara il gran finale, quello in cui si riannodano tutti i fili lasciati in qualche modo sospesi nel corso della stagione. Qui la faccenda è intricata, ma lungi da me spoilerarla. Nonostante sia tardi, sia la fine di una settimana lavorativa piuttosto complicata, siamo entrambi molto presi dalle vicende delle cinque di Monterey. Ci capita di rado, ultimamente giusto con l’ormai familiare Grey’s Anatomy.
Proprio mentre tutto si dipana, lasciando ovviamente l’uscio aperto a una ipotetica terza stagione, almeno questa è la nostra speranza, parte una canzone.
Allora, ho citato non a caso Grey’s Anatomy, questa faccenda delle canzoni nelle serie tv è un discorso che meriterebbe un approfondimento, approfondimento che non troverete in queste mie parole. Ma è un fatto che l’utilizzo di canzoni prese dal nostro comune passato, spesso rivisitate in versioni struggenti, ha un peso fondamentale, come certi snodi delle sceneggiature. Forse il primo caso che ho in mente a riguardo, ma torniamo davvero indietro nel tempo, risale ai tempi di E.R.- Medici In Prima Linea, nella famosa scena della lettera di Ciccio Green. Ora, se non sapete di cosa io stia parlando, e magari se siete particolarmente giovani o siete distratti o non seguite le serie tv ambientate negli ospedali, perché magari siete ipocondriaci e poi vi agitate, mi spiace, questo è il momento in cui dovete smettere di leggere, prendervi qualche settimana di tempo, vedervi tutta la serie in questione, magari anche un paio di volte, poi tornare qui e proseguire, perché se non avete visto tutte le stagioni di E.R.- Medici In Prima Linea, beh, temo che tra noi non ci potrà mai essere nulla di serio. Comunque, dicevo. La famosa scena della lettera di Ciccio Green. Mark Green, per gli amici Ciccio, è stato un personaggio fondamentale della serie in questione, interpretato dall’attore Anthony Edwards. Un personaggio che non potevi amare, e visto che ormai tutti voi che leggete avrete visto la serie non c’è bisogno che io stia qui a convincervi. Però siccome so che qualcuno fa il furbo e ha proseguito anche senza averla vista, riassumo in poche righe quello di cui si sta parlando, Ciccio Green, gran dottore, gran brava persona, a un certo punto si ammala. Esce apparentemente di scena, come a volte capita quando gli attori decidono di lasciare una serie tv. Poi arriva questa lettera, da un’isola tropicale, che è un po’ una lettera di addio a tutti i colleghi del pronto soccorso dell’ospedale di Chicago in cui E.R. è ambientato, ma in realtà è una lettera d’addio a noi che abbiamo seguito tutte le puntate. Ce ne sarebbe già abbastanza per citare in giudizio gli sceneggiatori, perché mica stiamo lì a guardare la televisione per stare male, ma loro niente, ci vogliono proprio male. Così accompagnano questa scena, in cui la lettera viene letta dalla sua voce, con un sottofondo che da quel momento troveremo anche in altri film, ma che è lì che ascoltiamo per la prima volta. L’inizio di questa spregevole abitudine di piazzare canzoni struggenti nei momenti struggenti, tanto per distruggerci il cuore. Mentre Ciccio Green si accomiata dal mondo e da noi, infatti, parte la versione per voce e ukulele di What A Wondferful World di Louis Armstrong fatta dal cantante hawaiano Israel Kamakawiwo’ole. Lui, se lo conoscete non potete non ricordarlo, è quell’artista dalla voce da usignolo e dal peso di oltre quattrocento chili, morto ovviamente giovane, a trentotto anni, ma non prima di averci regalato alcune perle, questa su tutte. Ma non è di lui che voglio parlarvi, ma appunto di questa canzone, che ha segnato la storia delle serie tv. Da quel momento, ma magari era già successo prima ma non me ne ero accorto, non c’è momento clou di una serie che non sia accompagnato da una determinata canzone. Spesso, ripeto, Grey’s Anatomy ne ha fatto una sorta di marchio di fabbrica, per dire, canzoni del passato riproposte in versione ballad, un po’ come era successo a Mad World dei Tears for Fears nella colonna sonora di Gary Jules per il film Donnie Darko. Una cover talmente potente da essere poi scambiata per l’originale, almeno dai più giovani, come è successo, e poi la smetto, giuro, con la melodia di Meraviglioso di Modugno, ormai tristemente diventata quella riarrangiata dai Negramaro. Prendi una canzone, la rallenti, la dilati, la rendi struggente, finisce dentro una scena clou di una serie tv e hai fatto quel che dovevi.
Torniamo all’altra sera, dopo mezzanotte, sul mio divano. Big Little Lies 2 sta per finire, io e Marina, mia moglie, siamo emotivamente provati. Ci spiace, perché magari non ci sarà una terza stagione, o perché in tutti i casi dovremo aspettare chissà quanto, e perché, con ogni probabilità, non ci resterà per un po’ che vedere Tale e Quale Show. Stiamo anche per scoprire cosa accadrà alle cinque protagoniste, le cinque di Monterey, oltre che alla cattivissima nonnina interpretata da Meryl Streep. Insomma, siamo al gran finale. Solo che parte questa canzone. Parte questa canzone e io, che sono un coglione, mi distraggo. Mi distraggo perché la musica ha con me questo potere, occupa militarmente la mia mente. All’inizio non la riconosco. Cioè, non è vero, la riconosco ma sono ancora preso dalla scena, dalla storia che sto seguendo, non la identifico esattamente per cos’è. Inizio quindi a canticchiarla, dicendomi tra me e me, “ma questa cos’è?”, fatto che fa ovviamente incazzare Marina, mia moglie. La canticchio e mi distraggo, così mi perdo alcuni snodi che, però, non posso dichiarare, perché nonostante io e Marina si stia insieme da quasi trentadue anni ancora provo un po’ di vergogna ad aver lasciato che la musica mi abitasse in questa maniera. Poi ho il colpo di genio, la identifico, e quindi, in un momento in cui dovrei stare a singhiozzare con gli occhi lucidi, eccomi lì che mi do pacche sulle cosce euforiche, perché ho fatto tombola. Si tratta di Have You Ever Seen the Rain?, il noto brano di John Fogerty per i suoi Creedence Clearwater Revival nel 1970. Il motivo per cui, sulle prime, non l’ho identificato, a parte la trama fitta e psicologicamente coinvolgente di Big Little Lies, è che il brano è nella versione del 2013 di Willie Nelson con la figlia Paula, versione che conoscevo ma che ovviamente occupava una casella minore nella mia memoria, là da qualche parte. Una versione più lenta, molto più lenta, in chiave alt-country. Una versione che, nell’archivio della mia memoria, si trova assai dopo quella originale, ma anche assai dopo quella con la quale io ho conosciuto questa canzone, la cover di Rod Stewart, probabilmente più famosa anche di quella dei Creedence, poi quella di Bonnie Tyler, più algida ma non per questo meno di impatto, e anche quelle un po’ sgangherate di Ramones e Spin Doctors. Dirò di più, forse sta anche dietro a quella di Mango, contenuta nell’album Acchiappanuvole, in una versione che non avrebbe sfigurato in una scena clou di una qualche serie tv.
Big Little Lies, il tempo che io finisco di festeggiare manco il Genoa avesse vinto finalmente lo scudetto della stella, finisce, non saprei neanche dire come (non è vero, lo so, ma ci stava che dicessi il contrario per giocare sulla mia deficienza di fissato con la musica). La canzone, però, mi si pianta nella testa, e non ne esce. Non ne esce davvero, perché a distanza di oltre una settimana sta ancora lì.
Questo mi offre quindi lo spunto, perché di spunto si tratta, per parlare di canzoni, di classici, di standard, di classici, e di carote.
Mi spiego. Mentre io sto qui che ancora canticchio una canzone scritta quarantanove anni fa, quando avevo ancora un anno, una canzone talmente potente da aver dato vita a non so quante versioni, quasi tutte di grande successo, perché le belle canzoni fanno così, offrono una base anche a altri artisti, sono una tavolozza già imbandita di colori, se uno sa come usarli e scombinarli e ricombinarli può tirarne fuori nuove versioni davvero belle, ecco, mentre io sto qui che ancora canticchio una canzone scritta quarantanove anni fa va di scena la seconda puntata delle audizioni di X Factor 13. La guarda, non perché io voglia cacciare questa versione via dalla mia testa, più perché devo per lavoro. La trovo abbastanza opprimente, come spesso mi capita con i talent, e più che altro, come quasi sempre mi capita con i talent, non vedo talenti. Vedo gente che in televisione si merita magari qualche minuto o qualche secondo di attenzione, ma nulla o quasi che abbia a che fare con la musica. Del resto, lo dico da tempo, X Factor, tutti i talent in generale ma X Factor nello specifico, funziona molto nei social, nella microbolla di Twitter, ma è un programma tv marginale, ben fatto, e ci mancherebbe pure altro, ma che ha meno spettatori di una partita di biliardo su Rai 3 di sabato notte. Lo seguo quindi distrattamente, come un po’ tutti lo seguo quasi più sui social che dalla tv. Per capire cosa piace. Ora, intendiamoci, a me di quel che piace alla microbolla di Twitter frega relativamente poco, perché, come per Spotify, parliamo di una microbolla, ben lontana dal mondo reale in termini di numeri e anche di gusti, ma andare su Twitter è più comodo che scendere in strada e parlare con la gente direbbe un redivivo David Foster Wallace, e a differenza dell’andare per strada a parlare con la gente, non devi neanche parlarci, puoi limitarti a leggere. Comunque, su Twitter, vedo, tutti impazziscono per una canzone dal titolo Carote. Io guardo sempre X Factor nel canale +1, perché alle ventuno e quindici sono ancora a tavola a cenare. Quindi ho una sorta di delay di un’ora, leggo prima cosa piace o non piace di quanto non mi capiti di vederlo in tv. Tutti sono entusiasti di Carote. C’è chi parla di genio, di situazionismo, di dadaismo, tutti sono davvero entusiasti. Arriva anche su +1 questo ragazzino di sedici anni che si chiama, mi sembra Nuela, e che canta Carote. La canzone parte, e a me le palle scendono in strada, a parlare con la gente, appunto. Si tratta di una canzoncina scemetta che gioca tutto sulla rima in OTE di Carote, andando a recuperare un “cellule eucariote” che fa tanto studente di liceo e un “investe un sacerdote” che entusiasma oltremisura il tizio coi capelli rossi per il quale sembra tutto X Factor 13 sia stato costruito su misura, una sorta di operazione di make up di quelle che un tempo hanno reso famosa tale Clio, non so se esiste ancora. Carote, avevo letto, ha il suo picco nel momento in cui, finite le rime idiote in OTE Nuela dice “armadio”. Ecco, potrei fermarmi qui. Ma non mi fermo. Perché, è evidente, non è certo col ragazzino sveglio di sedici anni che l’ha scritta che me la sto prendendo. Aveva tutto il diritto di farlo, e ci mancherebbe pure altro. Non ce l’ho neanche con un programma tv come X Factor, che essendo un programma tv si nutre appunto di cazzate, perché deve riempire due ore di trasmissione e della musica è evidente che gliene frega quanto a Paola Ferrari di un fuorigioco sospetto. Quello che mi ha atterrito, più che la canzone, ancora sepolta da Have You Ever Seen the Rain?, tranquilli, è il fatto che tutti se ne siano entusiasmati, e per tutti intendo anche quei quattro scappati di casa che, in teoria, dovrebbero scrivere di musica e che invece passano il tempo a fare tweet su quanto sia commovente l’ultima canzone di Ferro o su quanto sia grosso il pacco di Clementino. Nel senso, non dovreste parlare di musica? E che cazzo. La seconda cosa che mi lascia atterrito, e a questo punto va anche bene se pensate che sono un vecchio, che sono fuori tempo massimo, che vivo nel passato e non so adeguarmi al presente, va bene tutto perché se questo è il presente mi fa davvero ribrezzo, la seconda cosa che mi lascia atterrito è che ho come la sensazione che, Carote o non Carote, l’oggi sia in effetti tutto qui, canzoncine idiote che tra quarantanove anni nessuno troverà coverizzate in quelle che tra quarantanove anni saranno i corrispettivi delle serie tv. Perché, diciamocelo sinceramente, come in tanti altri campi dell’arte, dall’architettura alla pittura, passando per la letteratura, sembra che nessuno stia lavorando per provare a rimanere nel tempo. Niente più “un occhio all’immediato e uno all’infinito”, oggi. Tutto si è davvero vaporizzato, destinato a prossima estinzione. Anche quelle che oggi identifichiamo come grandissime canzoni, in realtà, a ben vedere, non sono altro che copie sbiadite di brani che hanno sì superato l’incedere del tempo, magari finendo campionate in un qualche loop o più semplicemente stravolte in una versione aggiornata, ma pur sempre loro, le vecchie canzoni di una volta. Ora, fermi tutti, non ho detto che una volta era tutto bello. Non lo penso. E non ho detto che oggi è tutta merda, lo penso abbastanza ma non l’avevo ancora detto. Dico solo che oggi sembra si guardi solo a esserci nei prossimi tre minuti, e che questa ignoranza di fondo che permea tutto ci stia spingendo verso una deriva fatta di pochi secondi di attenzione prima di uno skip (che non si dirà neanche skip, immagino, sono un vecchio e non sono aggiornato). Poi, è chiaro, ci sarà sempre qualcuno che dirà che anche mio nonno ascoltando Modugno sparato alla radio da mio padre avrà detto qualcosa di simile, la differenza è che ancora oggi Modugno è Modugno, e che nel mentre che mio padre ascoltava Modugno c’era gente che sparava i Beatles o i Rolling Stones, oggi abbiamo Carote che fa eccitare sessualmente la comunità musicale, da Samuel dei Subsonica ai giornalisti musicali raccolti al cenacolo di Twitter. Io che avevo abbastanza disprezzato Rod Stewart all’epoca, perché quel pop mi faceva cagare rispetto al rock sanguigno che di lì a poco avrei scoperto, sto partendo per un pellegrinaggio a piedi verso ovunque viva adesso, un cilicio a cingermi i fianchi e la schiena rigata dai colpi di frusta che mi sto autoinfliggendo. Perdonami Rod, ho dubitato di te, ma mai avrei pensato che sarebbe arrivati a fare questa fine qui. Che la pioggia cantata da Fogerty, prima, e da te poi, lavi via tutto, a partire dalle carote.
Ahahhahaha… concordo pienamente. Da grande sostenitore di Rod ti posso dire che lui ti perderà sicuramente. Altri tempi, altra gente, altra musica. Rod ha iniziato nel 1964 con un armonica e una chitarra che non sapeva suonare. Oggi è ancora li ch efa concerti e pubblica album. Nuela, Young Signorino (ve lo ricordate?) e il tipo di Rolls Royce sono solo fenomeni di un mercato “music-fast-food” che fa brillare un personaggio per 6 mesi e poi si getta su un altro. Diversamente da te sinceramente non mi preoccupo perchè so che fra 20 anni di questi non ci si ricorderà nulla. Grazie a Dio
SONO PERFETTAMENTE D’ACCORDO CON TE…. SIAMO TOTALMENTE ALLA FRUTTA…. ANZI AGLI ORTAGGI (CAROTE), CON LA MUSICA. ANCHE SE NON LA HO MAI SENTITA E MAI LO FARÒ… GRAZIE DELL’ARTICOLO (si il tipo dei subsonica lvho visto, fa il ‘giudice’, $$, anche perché diciamocelo chi c***o sono sti subsonica, poi, nel peso complessivo della musica mondiale… ZERO) Ciao