Tre soli giorni di programmazione al cinema per Chiara Ferragni – Unposted, il documentario diretto da Elisa Amoruso sulla più popolare influencer italiana – ma lei preferisce essere definita imprenditrice del settore digitale visto che, dati alla mano, fattura 40 milioni di euro e dà lavoro a decine di persone.
Il film ha incassato 1,6 milioni, con un primo giorno da 500mila euro, miglior performance per un film italiano al botteghino del 2019. Insomma, anche fuori dal suo ambiente digitale, dove conta oltre 17 milioni di follower su Instagram, Chiara Ferragni realizza numeri che lasciano il segno. Immediatamente sono scattate le rampogne indirizzate alla categoria dei critici cinematografici, che fin dalla proiezione alla Mostra del Cinema di Venezia l’hanno accolto con stroncature inappellabili. Valga per tutti il giudizio sul Corriere della Sera di Paolo Mereghetti: “Non Unposted ma Embedded doveva titolarsi. Non è cinema, è propaganda”. Ai critici ha risposto l’esperto di digitale Riccardo Luna su la Repubblica: “Sarebbe ora di levarci quell’aria di superiorità e provare a capire anche che succede fuori dal nostro giro”.
La questione in realtà è più ampia e non riguarda solo i critici. La contemporaneità nutrita di tecnologia s’è messa negli ultimi vent’anni a correre a un ritmo talmente forsennato da spiazzare chiunque non fosse un informatico o un futurologo. Una gigantesca messe di piattaforme, dispositivi, linguaggi, abitudini, personaggi nuovi emersi dal nulla hanno terremotato la nostra vita facendoci sentire quasi tutti obsoleti. Tranne certi giovani che, come ha detto Alessandro Baricco, uomo di formazione novecentesca però curiosissimo studioso della mutazione in corso, sono capaci di “respirare con le branchie di Google” e nuotare in quello che lui ha definito il Game.
Nessuno ha branchie più allenate di Chiara Ferragni, fenomeno globale che ha trovato nella rete un ecosistema ideale, apparentemente a suo agio con una vita privata che si è fatta integralmente pubblica – la sua, quella del marito Fedez e del figlio – attraverso il suo blog (The Blonde Salad) e i social network sui quali ha fondato un impero. Per costruire il quale, però, ha dovuto dimostrare qualità imprenditoriali che vanno ben oltre il semplice uso scaltrito di Instagram.
La Ferragni è un’icona globale e un punto di accesso privilegiato alla contemporaneità, in questo Riccardo Luna ha assolutamente ragione. Che va studiato per capire le aspirazioni dei giovani d’oggi e soprattutto come funziona il mondo in cui siamo, economia e rapporti di classe e potere compresi. Non sono solo i critici a non aver compreso come sono mutati i tempi. Chiara Ferragni racconta di quando, all’inizio dell’ascesa, venne invitata alle prime sfilate, trattata però come un’appestata dallo snobistico ambiente della moda, arroccato in difesa dei suoi privilegi di casta e incapace di misurarsi col violento cambio di paradigma in corso. La Miranda Priestley de Il Diavolo Veste Prada quasi quindici anni fa diceva: “Tutti vogliono essere noi”. Nel frattempo qualcuno è riuscito a coronare questo sogno, proprio grazie alla disintermediazione della rete, che ha ridotto drasticamente le distanze tra l’empireo del fashion e la gente comune.
Sotto questo profilo ci sarebbero cose interessantissime da analizzare. Il problema, qui i vituperati critici hanno le loro ragioni, è che Chiara Ferragni – Unposted non è di grande aiuto, perché offre una rappresentazione agiografica e addomesticata della protagonista, fotografata sempre dal profilo giusto mentre esprime concetti generici con un’espressione impostata. Più che un documentario sembra un video aziendale. L’aspetto più deludente non riguarda la Ferragni, legittimamente interessata a proporre un’immagine ideale di sé e del suo brand, quanto la regista Amoruso, che asseconda questa strategia con uno stile di servizio, pieno di controluce e inquadrature in ralenti dal basso di lei con sullo sfondo un cielo terso pieno di promesse. Gli ingredienti tipici di un racconto volutamente artefatto.
E dire che tra le tante persone intervenute in Chiara Ferragni – Unposted, giornalisti, direttori creativi di grandi case di moda e celebrità come Paris Hilton, qualcuno rilascia dichiarazioni ricche di spunti. Il direttore di Vanity Fair Simone Marchetti dice che Chiara Ferragni sa parlare “l’esperanto dei social media”, la cui lingua mira a dire quel che sembra e non quel che è. L’artista Francesco Vezzoli la ritiene “la figlia di Marina Abramović e del Grande Fratello”. E il marito Fedez, a chi ha criticato la coppia per aver sovraesposto mediaticamente la nascita del figlio, risponde che essendo loro costantemente sotto i riflettori il comportamento forzato sarebbe consistito nel non mostrare il bambino. Al tempo della rete è questa la normalità.
Insomma, le suggestioni non mancavano. Però il documentario le lascia affondare nella melassa d’una messinscena laccata, che insiste su incitamenti da self-help – “se vuoi puoi” – e al massimo concede una Ferragni moderatamente commossa di fronte al pensiero che la bella favola possa finire da un momento all’altro. Chiara Ferragni – Unposted è un grimaldello intenzionalmente spuntato e perciò come fotografia dello spirito dei tempi è inservibile. La questione però può anche essere vista esattamente al contrario. E allora il documentario di Elisa Amoruso, proprio nella sua levigatezza manierata ed evasiva può essere considerato uno specchio perfetto dell’habitat digitale, in cui la narrazione si tiene sempre al livello di una superficie talmente sottile da aver ormai reso impercettibile e priva di senso la differenza tra pubblico e privato, forma e contenuto, autenticità e recita. Insomma, tra vero e falso.