La domanda che tutti si sono posti all’annuncio del rinnovo della serie, su che senso avesse produrre La Casa di Carta 3 dopo un finale conclusivo e coerente delle prime due parti, ora ha una risposta. E la risposta è sì, un senso c’è, pur con qualche riserva.
ATTENZIONE SPOILER!
La Casa di Carta 3 amplifica il mix di ingredienti delle prime due stagioni in una terza dall’evidente respiro molto più ampio garantito dal budget che Netflix ha profuso in questa produzione attesa in tutto il mondo: molta più azione, molto più dramma, molta più ironia, ma soprattutto molto più sentimentalismo in stile melò fanno de La Casa di Carta 3 un concentrato esplosivo capace di far dimenticare – o almeno di far passare in secondo piano – i suoi pur evidenti difetti, la rendono un’esperienza immersiva in cui un episodio tira l’altro, il guilty pleasure che risulta impossibile interrompere, non prima di averlo gustato tutto, fino alla fine (e il nuovo formato da soli 8 episodi è perfetto per lo scopo).
Il primo grande interrogativo a cui dare una risposta era il motivo della reunion della banda: come rimettere insieme un gruppo di milionari ricercati dalle polizie di mezzo mondo e spingerli di nuovo all’azione? E come innescare una trama che non risultasse completamente campata per aria? L’escamotage narrativo che ha permesso tutto ciò è la cattura e la detenzione, con annesse procedure di tortura, di uno dei personaggi, Rio, ma si rivelerà ben presto la punta dell’iceberg di una motivazione più ampia: Il Professore riunisce la banda per rapinare il Banco di Spagna, rubare la riserva aurea contenuta nel caveau (notoriamente la garanzia ultima di liquidità di uno Stato), non solo per chiedere in cambio la liberazione dell’ostaggio detenuto in spregio dei diritti umani, ma per attuare una vendetta trasversale. La nuova rapina è sì una sfida al sistema, come vine spesso definita, ma è anche – come fa notare criticamente Raquel a Sergio – il modo più spettacolare per vendicare la morte di Berlino.
Per mettere insieme tutti i filoni del racconto, Alex Pina e il suo gruppo hanno innestato almeno 5 linee temporali: c’è quella del presente in cui si svolge il nuovo colpo, quella ambientata 5 anni prima in Italia con Il Professore e Berlino a Firenze e dintorni, quella immediatamente successiva alla fuga dalla Zecca, quella che mostra Rio e Tokyo – ma sporadicamente anche gli altri – nei 2 anni da latitanti, quella che racconta la preparazione del nuovo colpo alla Banca Centrale spagnola e perfino quella pre-rapina alla Zecca (in cui riappaiono anche Oslo e Mosca), così da creare l’effetto puzzle invocato dal creatore della serie. La narrazione multistrato funziona, permette di riportare in vita personaggi che non ci sono più senza ricorrere a resurrezioni surreali, di approfondire le modalità con cui si è giunti alle azioni scellerate del presente, di conoscere i personaggi per come erano e per come sono.
La terza stagione parte due anni e mezzo dopo il primo colpo e la rapina al Banco di Spagna – due mesi dopo l’arresto di Rio – è realizzata per costringere lo Stato alla resa definitiva ed ergersi a Robin Hood acclamati dalle folle. Una trovata narrativa che regge nonostante delle forzature inevitabili: la prima tra queste, inevitabilmente, è l’ingresso della banda nell’edificio. Decisamente assurdo che, semplicemente sostituendosi ad una squadra dell’esercito, non siano stati riconosciuti dalla Guardia Civil alcuni dei volti dei ricercati più noti di Spagna, da Tokyo a Monica passando per Denver. Come piuttosto improbabile è l’appoggio incondizionato della popolazione per un gruppo di persone che – seppur diventate icone antisistema e certamente più simpatiche di una polizia corrotta e di uno Stato pieno di segreti indicibili – sta comunque rubando le riserve monetarie di un’intera nazione mettendone a rischio la tenuta economica. L’intera stagione attribuisce un ruolo importante alla società civile, che in gran parte sostiene i rapinatori capaci di stamparsi il proprio bottino senza tecnicamente rubare, ma non ne approfondisce abbastanza le motivazioni.
Ad ogni modo, tra molti imprevisti, il piano viene implementato, ma a differenza del precedente studiato per anni dal Professore, questo viene messo in piedi in soli due mesi, sull’onda emotiva dell’arresto di Rio e della necessità di cavalcare le proteste dell’opinione pubblica contro la polizia e i servizi segreti per le loro violazioni dei diritti umani. Ciò rende tutto più rischioso, folle, apparentemente destinato al fallimento. E pone tutti i personaggi in una condizione di estrema vulnerabilità.
Oltre ad aver trovato la chiave per dare una prosecuzione alla trama, gli sceneggiatori hanno puntato infatti tutto sui personaggi, sulla loro psicologia e soprattutto sulle connessioni sentimentali tra loro: da gruppo di estranei riuniti in nome di un colpo da 2400 milioni di euro, a famiglia allargata in cui tutti devono la loro sopravvivenza agli altri. Caduta ogni pretesa di assenza di rapporti personali – regola imposta dal Professore e violata proprio da lui per primo, che non solo si è rivelato essere fratello di Berlino ma si è anche innamorato dell’ispettrice e negoziatrice Raquel – c’è ormai un profondo legame emotivo tra i membri dell’operazione originale, riconosciuto anche grazie alla maturità cui tutti sono andati incontro dopo la fuga. Denver è diventato padre ed è ossessionato dalla perdita del suo (Mosca, morto per colpa delle intemperanze di Rio nella seconda stagione), Monica è madre ma è alla ricerca della propria affermazione e dopo essersi unita alla banda col nome di Stoccolma non si tira indietro di fronte all’azione, Nairobi si è innamorata di Helsinki nonostante lui sia dichiaratamente gay e trova il coraggio di confessarglielo in un momento di estrema tensione durante la rapina, Rio affronta torture indicibili con una forza d’animo che è l’esatto opposto delle debolezze mostrate nella prima stagione, Raquel ha deciso di sposare la causa del Professore mettendo a rischio la vita di sua madre e sua figlia dopo aver constatato sulla sua pelle quanto corrotto sia il sistema istituzionale. Ma quella che più di tutte ha avuto un’evoluzione positiva è Tokyo: la mina vagante, la scheggia impazzita, ma anche la voce guida per lo spettatore, ha vissuto la sua storia d’amore con Rio fino a non poterne più dell’isolamento e la sua fuga dall’isola caraibica in cui erano nascosti ha innescato gli eventi sfociati nella cattura del ragazzo. Più emotiva, più attenta agli altri, in cerca d’amore, perfino quello della folla che la acclama fino a farla commuovere: la sua necessità di salvare Rio è anche un atto di redenzione personale e mostra una Tokyo meno concentrata su se stessa, più sensibile, più sofferente, più attenta agli altri pur restando uno spirito libero, imprevedibile e folle.

Grande assente nella trama che si svolge nel presente, perché ufficialmente morto sotto il fuoco dell’artiglieria nel finale della seconda stagione, Berlino è l’anima di questi nuovi episodi: non solo appare a più riprese nel filone del racconto ambientato cinque anni prima a Firenze, ma suo (e dell’amico Palermo) è il piano di assaltare il Banco di Spagna, in una competizione col piano di rapina alla Zecca che sarebbe stata vinta da quest’ultimo. In definitiva tutto ciò che accade in questa stagione è un omaggio a Berlino, al suo genio sprezzante delle regole e della legfe, a quella che riteneva essere la sua arte – alla stregua della scultura per Michelangelo – ovvero rubare, ma farlo in grande, con stile e con amore (per se stesso e per le donne di cui non poteva fare a meno).
Molto più di tanti altri personaggi, Berlino è in tutte le pieghe di questa trama: nella sete di vendetta del fratello Sergio, il cui legame di sangue confermato sin dal primo episodio, nelle lacrime di Palermo che ne era innamorato ma non ha mai avuto il coraggio di confessarlo, nel senso di colpa del resto della banda per quella morte che ha permesso loro la fuga. Il personaggio di Pedro Alonso, insieme a quello di Alvaro Morte, risulta ancora, pur in absentia visto che è ormai morto, il più affascinante e potente di questa serie, ora addirittura esplorato in modo più profondo grazie all’incursione nel passato e nel suo legame con Sergio e quasi epurato delle sue connotazioni più spregevoli (il machismo, la misoginia, la violenza bruta) in favore di quelle più umane come la malattia terminale e il modo di affrontarla. Il suo essere l’esatto opposto del fratello ne fa una sorta di specchio al contrario per il Professore ed è dalla loro interazione che nascono alcuni dei momenti più drammatici, ironici, intensi di questa stagione.

Altro grande protagonista è il leader della banda, per via dell’esplorazione della dicotomia tra l’uomo e il rapinatore, tra Sergio e Il Professore, tra l’uomo che ama per la prima volta nella vita e quello che vede in Raquel un ostacolo al proprio colpo: per la prima volta la sua maschera di Dalì va completamente in frantumi – letteralmente, tanto da mostrare il suo volto in un maxischermo nel centro di Madrid mentre un dirigibile lancia soldi sulla folla – dietro il ladro nerd c’è un uomo che sta imparando ad amare e non sapendo come farlo commette una serie di errori, finendo per tradire i suoi principi (la convinzione di non dover mescolare sentimenti e affari diventa ormai solo un ricordo). La sua è un’eterna lotta nel tentativo di far convivere ragione e sentimento, sempre sull’orlo di un baratro imminente perché da ogni sua decisione dipendono vite umane.

Meno efficaci le new entry, che risultano degli evidenti sostituti dei personaggi deceduti nella precedente rapina, ma tutti in tono decisamente minore. Palermo è la versione gay del donnaiolo Berlino, amico di cui è stato segretamente innamorato, cinico e spietato al comando della banda nel nuovo colpo, sessista e misogino, incapace di esprimere sentimenti proprio come all’epoca fu dipinto Berlino. Marsiglia è quasi inesistente come fu Oslo. Bogotà è una replica di Mosca, saldatore con 7 figli che finisce per fare da padre agli altri. Molto azzeccata invece la scelta del nuovo comandante dei Servizi Segreti che dirige l’operazione, un cattivo in piena regola al quale nessuno affiderebbe la propria sicurezza, mentre l’ispettrice Sierra è a tratti troppo sopra le righe per essere credibile in una situazione simile (Najwa Nimri non è mai uscita dal ruolo di Zulema in Vis a Vis e qui ne replica l’attitudine animalesca, da belva pronta a tutto per i suoi scopi, perfino a sparare ad una madre davanti a suo figlio). Confermato invece il ruolo di sfigato per il direttore della Zecca Arturito, ormai diventato life coach dopo un libro sui giorni della rapina ma in realtà solo una pallida imitazione dell’eroe nazionale che crede di essere.
E veniamo alle altre note dolenti: nonostante i suoi pregi, La Casa di Carta continua ad avere enormi difetti. In questa stagione, in particolare, si fanno notare in negativo una colonna sonora troppo invasiva e spesso stridente con le immagini, una fotografia un po’ troppo patinata che migliora l’estetica della serie ma fa perdere alle scene un po’ di naturalezza, un ricorso al rallenty che fa molto tv del secolo scorso, un eccesso di primi piani che rende la regia talvolta stucchevole, una deriva trash che è sempre dietro l’angolo sia per forma che per contenuto (gli sceneggiatori in questa stagione hanno una specie di ossessione per le feci, che diventano oggetto di conversazione tra i personaggi più d’una volta e in situazioni molto diverse). Limiti che non consentono ancora a La Casa di Carta di entrare “nella Champions League della serialità“, come aveva dichiarato orgoglioso Alex Pina, perché la retrocessione ad action movie misto a soap opera è sempre dietro l’angolo, nonostante la mania di grandezza dimostrata con questa stagione, o forse anche grazie a quella.
Per molti il fenomeno La Casa di Carta è stato sopravvalutato. E sicuramente lo è. Ma al di là di ogni snobismo, c’è da ammettere che questa serie così sfrontata, frutto di un’accozzaglia talvolta eccessiva di stili diversi, spesso pacchiana e naif, ha il pregio di avere una sua identità, di essere riconoscibile, di saper tenere lo spettatore incollato allo schermo perché lo sfida ad alzare sempre ulteriormente l’asticella del surreale.
Così La Casa di Carta 3 amplia ed esaspera gli elementi che l’hanno resa un successo mondiale riuscendo a darsi nuova vita. Il budget di Netflix contribuisce a dare un respiro più ampio all’azione, che si svolge in luoghi molto diversi e con scene che coinvolgono centinaia di comparse: sarebbe stato impossibile, nelle prime due stagioni, vedere scene come quelle del lancio di 140 milioni di Euro su Madrid da un dirigibile, così come le numerose riprese dall’alto e le tante location internazionali usate per le scene della latitanza, sono un segno evidente che la serie non è più una piccola produzione spagnola destinata al mercato interno ma un format di successo internazionale che, come tale, si è adeguato agli standard Netflix. E con un finale decisamente aperto, denso di colpi di scena, all’apice di un climax di cattiveria e violenza, in vista della quarta stagione sfida ancora il pubblico a sospendere il suo giudizio sulla credibilità e la verosimiglianza di ciò che sta guardando, invitandolo semplicemente a prendere parte al gioco e fare il tifo. Per i ladri, ovviamente.