La Mia Vita Con John F. Donovan, Xavier Dolan si mostra allo specchio ma perde il filo del suo cinema

Il primo film americano di Dolan è una riflessione autobiografica sulla fama e le maschere che gli artisti indossano per sopravvivere. Il cast, guidato da Kit Harington, è stellare. Il film meno

La Mia Vita Con John F. Donovan

INTERAZIONI: 540

La Mia Vita Con John F. Donovan doveva essere il film della consacrazione per Xavier Dolan, alla sua prima produzione americana – lui canadese francofono – e un cast stellare, Kit Harington, Susan Sarandon, Natalie Portman, Jacob Tremblay, Kathy Bates.

Il film si è rivelato un boomerang: lavorazione macchinosa, rimaneggiamenti e tagli delle parti di alcuni attori, addirittura Jessica Chastain, lungaggini che hanno impedito al film di esordire nell’enclave protetto di Cannes, dove Dolan è amatissimo. Invece del plauso è arrivata la generale stroncatura, il che ha portato in molti paesi a procrastinare l’uscita del film, che arriva solo oggi sugli schermi italiani, con oltre un anno di ritardo, quando ormai Dolan ha già sfornato un altro titolo, Matthias & Maxime, passato nel maggio scorso in concorso sulla Croisette.

Dopo questo flop globale Dolan potrà finalmente scrollarsi di dosso la definizione di eterno “enfant prodige” con cui l’ambiente del cinema l’ha coccolato in questo decennio di inesauribile attività – ricordiamo che ha appena compiuto trent’anni e ha otto film da regista all’attivo.

E a guardarlo bene questo rutilante, impreciso, verboso e compiaciuto La Mia Vita Con John F. Donovan racconta proprio questo: la fama con le sue etichette fagocitanti, il crollo delle aspettative, l’immaturità genetica di chi arriva troppo presto al successo e ne viene travolto. È come se Dolan avesse presentito la crisi esorcizzandola attraverso il racconto della vita, e soprattutto della morte, di un attore: John Donovan, giovane stella della tv – inevitabili le sovrapposizioni con l’attore che lo interpreta, il Kit Harington de Il Trono Di Spade – che decide di farla finita, a soli 29 anni.

La storia viene ripercorsa in gran parte in flashback attraverso le parole di Rupert Turner (Ben Schnetzer), attore ventenne che dieci anni dopo il suicidio rilascia una lunga intervista a una giornalista molto recalcitrante (Thandie Newton) raccontando la storia di quando, ancora bambino (Jacob Tremblay), intrattenne un lungo rapporto epistolare con Donovan, che però non avrebbe incontrato mai. Per ragioni inspiegabili, il divo ombroso e taciturno nelle lettere al bambino invece apre (quasi) tutto sé stesso, paure ansie ma anche la passione per la recitazione, mantenendo il riserbo solo su ciò che il piccolo non avrebbe potuto capire, cioè la sua omosessualità, tenuta pubblicamente segreta per ragioni di opportunità.

Xavier Dolan fa più che immedesimarsi in John Donovan: perché anche il Turner ventenne è un attore di successo, e omosessuale, e attore era anche il Turner decenne. I tre personaggi condividono le stesse tortuose relazioni familiari: che come sempre nei film di Dolan consistono in un rapporto controverso con le madri (Sarandon per Donovan e Portman per Turner) e in padri immancabilmente assenti.

Il regista insomma scompone il ritratto di sé focalizzandolo su tre diverse fasi della sua giovane vita, a dieci, venti e trent’anni, costruendo una vicenda sulla quale è difficile non proiettare la suggestione (auto)biografica dell’autore dietro i personaggi.

Purtroppo mancano una regia e una sceneggiatura (firmata a quattro mani da Dolan e Jacob Tierney) a governare la materia ribollente, che negli incontrollati andirivieni tra passato e presente perde di consistenza e coerenza, con molte ripetitive variazioni sullo stesso tema – il film è strutturato in piccoli episodi tenuti insieme dall’esile filo della conversazione tra Turner e la giornalista, e ogni nuovo capitolo riparte immancabilmente da un’inquadratura aerea di una città.

Xavier Dolan non è stato, fino a oggi, un regista di scrittura. Il punto di forza del suo irruento talento consiste nella capacità di raccontare corpi piuttosto che storie, incollandosi agli attori dai quali ha sempre preteso si scrollassero di dosso la loro professionalità, per radiografarne l’evidenza fisica, l’autenticità oltre la maschera – si pensi solo al suo film forse più riuscito, Mommy. E pur nella implausibilità della storia – l’amicizia di penna tra un divo e un bambinetto? – in un film come La Mia Vita Con John F. Donovan, tutto incardinato sul tema della maschera, questo approccio avrebbe potuto creare dei cortocircuiti di senso interessanti.

Il problema è che, alle prese con una grande produzione e attori di scuola, Dolan non riesce a strappare loro il velo d’un professionismo molto recitato. Il film resta impigliato dentro un racconto artefatto, incapace di raggiungere quella temperatura che incenerisce le consuetudini dell’attore e ne mostra la verità senza impalcature. E se togli questo elemento, del cinema di Dolan restano solo i difetti, molto visibili.