Aspettando in autunno The Irishman, l’attesissimo film di Martin Scorsese con Robert De Niro e Al Pacino targato Netflix, la piattaforma produce e rende disponibile dal 12 giugno Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story, il documentario che il regista newyorkese ha dedicato all’artista di Duluth.
Scorsese si era già occupato di Dylan nel 2005 in No Direction Home, che ricostruiva gli anni della sua ascesa fino all’incidente in motocicletta del 1966 e componeva insieme un affresco dell’America dei tumultuosi e fecondi anni Sessanta.
Rolling Thunder Revue invece, attraverso cospicui materiali di repertorio e nuove interviste, tra cui una recente allo stesso Dylan, racconta il leggendario tour che l’artista intraprese a cavallo tra l’ottobre del 1975 e il maggio 1976. Dopo una lunga assenza dal palcoscenico di otto anni e diversi album interlocutori, nel 1975 Dylan era tornato nel pieno controllo della sua arte, pubblicando Blood on the Tracks, capolavoro della maturità di un uomo che aveva abbondantemente superato la boa dei trent’anni – ricordiamo che “non fidarti di nessuno che abbia più di trent’anni” era l’ammonimento lanciato da uno dei leader del Sessantotto americano, Jerry Rubin.
Dopo un grande disco e una lunga e faticosa tournée insieme alla Band, Dylan sentì il bisogno di escogitare qualcosa di completamente diverso. Un tour al sapore di guerriglia, con concerti a sorpresa in piccole città insieme a un carrozzone di musicisti che assomigliava più a una comune o a un’accozzaglia di gitani, e spettacoli a metà tra caos controllato e improvvisazione perenne, da vecchio vaudeville. C’era di tutto nella Rolling Thunder Revue: il poeta Allen Ginsberg, trait d’union tra la musica di Dylan e la beat generation, che però si limitava a suonare il cembalo; artisti che s’aggiungevano per una serata, Gordon Lightfoot, Ronnie Hawkins, Arlo Guthrie; o gente che, venuta per una comparsata, non ripartì più, come Joni Mitchell. Con in più, guest star accanto a Dylan, una presenza che riannodava passato e presente, Joan Baez.
Al centro di tutto un Bob Dylan più ieratico ed enigmatico che mai, con un inseparabile cappello a falde larghe e la biacca sul volto, a indicare forse la volontà di mascheramento, e sicuramente la natura assolutamente teatrale d’uno spettacolo consapevole della sua finzione. Che è esattamente la cifra da cui parte Scorsese per rileggere la tournée, ricavandone un film che solo all’apparenza è un documentario, ed è invece un gioco sul vero, il falso e la contaminazione dei generi.
Scorsese pone in apertura il primo trucco cinematografico di un corto del 1896 dell’amatissimo Georges Méliès, Sparizione di una signora al Teatro Robert-Houdin, a dichiarare l’ambiguità istitutiva del cinema e di questo finto documentario che fa il verso al mockumentary. Infatti il film-maker Stefan van Drop, presunto autore dei materiali d’archivio, non esiste, lo interpreta un attore (Martin von Haselberg, marito di Bette Midler); la storia di Sharon Stone in versione groupie che ricorda quando si accodò alla Rolling Thunder, con tanto di foto che la ritrae giovanissima accanto a Dylan, è inventata; il politico Tanner che racconta di quando andò a vedere lo show è un altro attore, Michael Murphy, che riprende il ruolo interpretato in una celebre miniserie tv, Tanner ’88, diretta da Robert Altman.
Il vero e il falso s’intrecciano inestricabilmente. E a rendere ancora meno affidabile il tutto, compaiono anche dei doppi, con una Joan Baez molto lontana dall’immagine seriosa di paladina dei diritti civili che si traveste da Dylan, con cappello parrucca e volto dipinto, traendo in inganno persino la band. La vertigine del falso mina alle fondamenta la credibilità documentaria. E in questo corrisponde perfettamente alla natura perennemente ambigua del personaggio Dylan, che dichiara: “Non ricordo niente di Rolling Thunder. È successo così tanto tempo fa che non ero neanche nato”. Aggiungendo: “La vita non è trovare sé stessi, è creare sé stessi”.
Scorsese prende alla lettera l’enigmatica attitudine dylaniana, la sua storica propensione a non dire niente di sé o tantomeno della sua arte, lasciata lì sul palco a mostrarsi, senza spiegazioni e note a margine. Tutto resta indefinito, come il titolo scelto per la tournée: pare sia stato ispirato a Dylan dall’esperienza di un fortissimo tuono; ma poi si scopre che nella lingua degli indiani d’America significa “dire la verità”; ed è pure il nome in codice dato a un’operazione di bombardamento durante la guerra del Vietnam. Insomma, tutto si tiene: l’ispirazione d’artista, una suggestione connessa all’antica cultura indigena americana, il graffio satirico politico. Ma anche questa potrebbe essere una falsa pista, o pista di comodo: come la domanda tendenziosa che vuole sapere il perché dell’uso dei travestimenti a Joan Baez. L’intervistatore pretende che lei ammetta che in quel modo s’intendeva denunciare quel paese in maschera che era l’America dell’epoca. Ma sarebbe una lettura semplicistica, che l’artista si rifiuta di dare.
Non bisogna mai dare alla gente ciò che pretende. È l’atteggiamento alla base dell’intera carriera di Dylan, ribadito anche qui: “Non possiamo badare a tutti quelli con troppe aspettative”. Scorsese, in questo suo fedele esegeta, ne segue la linea: dà relativa importanza a fatti e cose dette – mescolate a diverse menzogne –, e riserva lo spazio dell’autenticità e della verità all’unico momento che veramente conti: le canzoni, le esecuzioni di bellezza abbacinante di One More Cup of Coffee o Simple Twist of Fate, con un Dylan in stato di grazia. È questo il rombo del tuono rotolante che non finisce mai di tremare e far tremare. Ascoltiamolo.