Per “tribute band” si intendono quei gruppi musicali che ripropongono il repertorio di un singolo artista o di un complesso celebri, realizzando esibizioni live che cercano di ricreare le sonorità, l’impatto visivo, insomma la magia dell’originale.
A differenza delle “cover band”, che mischiano generi musicali diversi e che hanno nel loro repertorio una rosa più o meno ampia di artisti, le “tribute band” hanno un riferimento unico e ad esso consacrano tutta la propria attività, a volte cercando con maniacale meticolosità l’imitazione perfetta, altre volte offrendo riletture più fantasiose, ma sempre nel rispetto dello spirito dell’artista originale con il quale capita persino, talvolta, di poter duettare.
Alla realtà di queste band è dedicato il saggio di Massimiliano Barulli “L’arte di imitare – il fenomeno delle tribute band in Italia”, un lavoro interessante che punta a focalizzare le ragioni immediate, e quelle più profonde, di un fatto che appartiene al costume, al mondo del business ma anche alla cultura nel suo insieme. Che all’origine di una formazione “tribute” vi sia una grande passione per l’artista originale non c’è dubbio, altrimenti non si giustifica tanta dedizione. Tra le ragioni di questa scelta – che il saggio non manca di elencare – si trova però anche la necessità di lavorare, che accomuna tutte le rock band soprattutto quelle più giovani: esibire un repertorio famoso significa per una band garantirsi un pubblico di affezionati, e rappresenta una risorsa anche per i gestori dei locali che fanno buoni affari offrendo gustosi surrogati di artisti “top”. Ma esiste anche una ragione più profonda fra quelle che Barulli analizza, vale a dire il periodo musicale al quale i fedeli imitatori fanno per lo più riferimento. Sembra infatti che siano gli anni Sessanta e Settanta ad ispirare maggiormente i gruppi “tribute”, due decenni fondamentali per la storia del rock, nel corso dei quali i diversi filoni di questo genere musicale hanno preso la propria fisionomia e nel quale figure carismatiche e straordinarie hanno lasciato il segno.
Ci sarebbe dunque, all’origine di tutto, una questione di qualità della proposta musicale, una qualità alla quale i gruppi contemporanei non possono che inchinarsi e rendere omaggio. Se questo è vero, dovremo accettare l’idea che tanta dell’energia dei musicisti, anziché rivolgersi a realizzare nuove creazioni, debba confluire nella ripetizione ad oltranza di qualcosa di già fatto e già sentito. La prospettiva non è incoraggiante ma – se vogliamo – ha un precedente storico di tutto rispetto, il manierismo nella pittura e nelle arti figurative. Nel corso del Cinquecento, dopo la morte di artisti eccelsi come Raffaello e Michelangelo, si finì per teorizzare – lo fece con particolare finezza Giorgio Vasari – che l’arte avesse conosciuto, con i grandi artisti rinascimentali, la sua massima espressione e che più in alto di così non potesse spingersi.
Avendo avuto il suo picco qualitativo, l’arte avrebbe potuto da quel momento solo ripiegare sull’imitazione e sulla contemplazione dei “grandi”. Certo, se si pensa che gli anni Sessanta e Settanta hanno prodotto fuoriclasse come Bob Dylan, Neil Young, Led Zeppelin, Janis Joplin, Pink Floyd e via discorrendo appare legittimo il sospetto che, raggiunte quelle vette, la musica possa solo “segnare il passo”. Tuttavia, nelle arti figurative come nella musica la storia ha ricominciato a camminare. Nuovi stili, avanguardie, personalità geniali sono prima o poi riapparsi. Un fatto rassicurante, dopotutto, e un messaggio alle giovani leve: onorare i grandi sì, ma cercare comunque la propria strada.