“Parla della morte”, dice Pietro guardando in camera nella prima inquadratura di Selfie. Lui intende il testo della canzone neomelodica che sta per far ascoltare, ma l’affermazione può valere per tutto il documentario di Agostino Ferrente, perché la cornice entro cui si inscrive il racconto è la tragica fine di Davide Bifulco, un diciassettenne incensurato del Rione Traiano, quartiere della periferia occidentale di Napoli, che venne ucciso da un carabiniere durante un inseguimento perché scambiato per un pregiudicato.
Ferrente, che veniva dall’esperienza di un altro straordinario documentario di ambientazione partenopea, Le cose belle, firmato a quattro mani con Giovanni Piperno e prodotto da Parallelo 41, ha sentito l’urgenza di tornare tra le strade della città per confrontarsi con questa vicenda, raccontando il quartiere che l’ha prodotta, uno spazio nel quale inevitabilmente si annodano marginalità, criminalità e degrado. Ma ha scelto di farlo con una originalità di sguardo che sottrae la storia di periferia a qualunque spettacolarizzazione gomorresca come anche al miserabilismo voyerista.
Il regista ha individuato due ragazzi del rione della stessa generazione di Davide, i sedicenni Pietro e Alessandro, e ha messo nelle loro mani due cellulari con i quali costruire il racconto, indicando loro, di qui il titolo Selfie, di comprendere sé stessi nell’inquadratura. I due hanno cominciato a radiografare questo mondo in miniatura dal quale non sembra esserci via d’uscita – il resto della città è letteralmente tagliata fuori –, mostrando i volti dei ragazzi del quartiere, le loro biografie precarie povere di prospettive sia materiali che culturali.
C’è una ragazza di sedici anni che, sebbene racconti di voler lasciare il rione, con tranquilla lucidità afferma di poter sposare un criminale e mette in conto come cosa inevitabile che il suo uomo possa finire in carcere, calcolando il numero di anni di pena detentiva secondo lei tollerabili. O ci sono gli amici di Pietro che si esibiscono a favore di camera sparando in aria, per fargli capire il rumore che fa una pistola.
I due bravi ragazzi Pietro e Alessandro, il primo barista, il secondo aspirante parrucchiere, accettano fino in fondo il ruolo di testimoni, raccontando un luogo che nel deserto della calura estiva è ancora più mesto e surreale. Responsabilizzati dal compito datogli dal regista, si pongono anche problemi di messinscena: perché Alessandro vorrebbe raccontare “le cose belle” del quartiere e trarne fuori un diario quotidiano, mentre Pietro insegue una sua idea di cinema della realtà, e allora pone domande a uno spacciatore sul suo lavoro o chiede a un ragazzo cosa si provi a sparare – e questo ripete esattamente le stesse frasi dei giovani criminali di Robinù, perdutamente innamorati delle armi.
Selfie è un film inedito su un mondo marginale che gli spettatori conoscono solo attraverso il filtro di un cinema più professionale. Il quale però, anche nel caso di film onesti come La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, risulta al confronto inevitabilmente edulcorato e addomesticato. Qui invece la realtà emerge nella sua scabra essenzialità. Attenzione, Ferrente non è un ingenuo, non pensa certamente che basti dare un cellulare a due ragazzi del quartiere per ottenere automaticamente uno sguardo trasparente e oggettivo. Un filtro c’è sempre: quello del regista, che dà un indirizzo ai due improvvisati videomaker e che mette in forma i materiali attraverso un montaggio che è soltanto suo. E c’è anche il portato esistenziale dei protagonisti, tutto tranne che neutro.
Eppure la scelta di aggirare la tradizionale mediazione autoriale – pur gravida di interrogativi che hanno a che vedere con l’estetica e l’etica – consente a Selfie di smarcarsi tanto dalla sociologia che dall’antropologia, raggiungendo una visione, non so se definirla realista, naturalista o d’inchiesta, che ha il sapore francamente disperante della verità. E sono raggelanti le poche inquadrature interpolate a quelle realizzate dai ragazzi, prese dalle telecamere di sicurezza che filmano il quartiere dall’alto e dall’esterno. Perché ci ricordano in maniera impressionante il nostro sguardo di spettatori, lontano e indifferente.