Classe 1990, romano di nascita e londinese d’adozione, Filippo Bergami è un vero e proprio orgoglio italiano. Uno di quelli che alcuni definirebbero un cervello in fuga. A me piace chiamarlo un talento silenzioso, un ragazzo che oggi fa il game designer fuori dal suo paese e che fa sentire la sua voce incanalando la sua passione per i videogiochi – lo ha “pizzicato” da piccolissimo, come accaduto a molti di noi! – nella creazione di esperienze poligonali e in realtà virtuale e aumentata. Filippo è un talento affamato, protagonista di quella che potrebbe sembrare una storia fra tante, ma che ha davvero molto da insegnare a tutti quegli adolescenti e giovani universitari che vorrebbero provare a percorrere la sua stessa strada.
Filippo Bergami è un 28enne con cui ho avuto il piacere di confrontarmi per una intervista che si è subito trasformata in una chiacchierata da pub – e pad! – tra due vecchi amici. Forgiati dallo stesso disgraziato amore per tutto quello che è nerd. E se è vero che la tentazione di chiedergli un parere sull’ultima – criticatissima! – stagione di Game of Thrones era fortissima, così come di cullarci tra i ricordi delle bellissime riviste di settore come Zzap! e GameRepublic, alla fine questo giovane game designer mi ha conquistato con il suo stesso lavoro. Con il fascino insito nel realizzare videogame all’estero e sì, pure con una dichiarazione d’affetto per i miei adorati Pokémon, mostriciattoli tascabili con cui Nintendo ha rovinato la mia vita sociale per sempre – ed è una fortuna che sia successo, intendiamoci.
Ciao Filippo, mi racconti un po’ il tuo lavoro?
Ciao a tutti, generalmente parlando faccio il game designer. Questo significa che mi occupo della creazione di un videogioco e di molte delle sue feature. In passato, ad esempio, ho sviluppato elementi come tutorial, nuovi sistemi come eventi temporanei e offerte, sfociando anche nel balancing e nella monetizzazione di un prodotto videoludico, senza mai perdere di vista il piano strettamente creativo.
Qual è stato il tuo percorso in questo settore? Come sei arrivato a fare quello che fai oggi?
Ho frequentato il liceo classico a Roma. Poi, sempre nella mia città, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione. La mia passione per i videogiochi era alle stelle e volevo farne un lavoro. Così molte persone di questo settore mi hanno consigliato di puntare tutto sull’inglese, spingendomi a volare a Londra per studiare. Qui ho appreso la lingua, e ho mosso i primi passi come content editor strategist per una agenzia di comunicazione italiana, dedicandomi pure alla strategia digitale. Dopo un’esperienza di pochi mesi come production assistant a Sheffield, la grande occasione è arrivata ad Amburgo con la Bigpoint Games. Con loro ho collaborato ad un gioco chiamato Farmerama, che mi ha permesso di apprendere le basi per supportare progetti game as service e di dedicarmi al primo amore, il game design.
Secondo te perché in Italia le software house non riescono ancora ad imporsi a livello internazionale? Tranne pochi casi, cosa non funziona nel nostro paese per poter arrivare ad eguagliare altre realtà europee prima sottovalutate (vedi il caso di CD Projekt RED in Polonia)?
Quello di CD Projekt RED è un bell’esempio. In Italia abbiamo Milestone, che è di fatto un’eccellenza, o Ubisoft Milano, ma anche tante piccole realtà che meriterebbero molta più attenzione. Molto è dovuto agli investimenti del governo, quello italiano non ha ancora la stessa maturità di altri paesi qui in Europa o oltreoceano. Il videogioco, nonostante l’impegno di AESVI (Associazione Editori e Sviluppatori Italiani, ndR), continua ad essere non riconosciuto come una forma d’arte nel Bel Paese. Questo non è solo un limite alla crescita delle software house tricolore, ma anche all’erogazione di tutte quelle agevolazioni fiscali che noi non abbiamo, come accade invece in Polonia. Allo stesso modo la lesiglazione italiana nel campo è ancora fallace, per un mercato esploso solo negli ultimi anni che sembra difficile da comprendere per la classe dirigente di un paese lento come il nostro. Lo ammetto, si fatica in Italia a stringere collaborazioni con le istituzioni competenti, che potrebbero e dovrebbero aiutare molto il settore. C’è poca storia dei videogiochi in Italia, ma credo che la strada intrapresa sia quella giusta.
Ti piacerebbe portare la tua esperienza in Italia? Faresti videogiochi nel nostro paese se ne avessi occasione?
Dopo la Germania, sono tornato un anno e mezzo in Italia. E faccio ancora qualcosa collaborando con un’agenzia tutta made in Italy dall’Inghilterra. Devo essere sincero, vorrei tornare nel mio paese: mi manca, sono legato alla mia terra. E vorrei arricchirla con la mia esperienza, sarei curioso di rapportarmi alla cultura lavorativa e creativa italiana, che per me continua comunque ad esercitare un grandissimo appeal. Se ci fossero dei fondi concreti dallo Stato lo farei subito, non ci sono dubbi!
Dimmi il primo consiglio che ti viene in mente da dare ad un adolescente che vorrebbe fare il tuo stesso lavoro.
Studiate l’inglese! E giocate, giocate tantissimo. Sono gli stessi videogame ad insegnarti come svilupparli e maneggiarli, a guidarti verso le skill necessarie per entrare in questo mercato. A sussurrarti all’orecchio come risolvere i tanti problemi che si presentano nel lavoro di un game designer, a farti capire quali sono gli elementi necessari da analizzare e scomporre.
Come vedi il futuro della VR? Come si evolverà questa tecnologia con le piattaforme next-gen?
Sono fiducioso sul futuro della VR. All’inizio non ero uno scettico come lo erano invece molti, e l’impegno di Sony o di Valve, o ancora della stessa Facebook con Oculus Rift, mi hanno dato ragione. I tanti problemi insiti nella realtà virtuale all’inizio stanno piano piano sparendo, pensiamo alla motion sickness che precludeva l’esperienza a tanti giocatori. Secondo me il prossimo passo è quello di sfruttare i tanti dev-kit gratuiti a disposizione e il cloud gaming per spostarsi da esperienze elementari a più complesse, che possano avere una propria dignità artistica come un Final Fantasy o The Witcher.
Google Stadia ti convince?
Moltissimo, all’annuncio avevo un gran sorriso stampato sulla faccia. Ho come tutti dei dubbi sulle infrastrutture delle connessioni e sulle specifiche necessarie per giocare al meglio in streaming, ma credo che nessuna realtà sia adatta a spingere attualmente in questo campo come Google. Pensare di poter giocare ovunque senza una console fisica è esaltante, soprattutto per uno come me che non ha moltissimo tempo per stare seduto a casa davanti alla TV.
https://www.youtube.com/watch?v=HikAuH40fHc
Il tuo videogioco preferito. Così, a caldo.
Devo dire Pokémon Rosso. Rubavo il Game Boy di mia sorella a 8 anni, ed è tutta colpa dei mostri tascabili di Nintendo se sono un appassionato di videogame, e se ho deciso di farne una vera e propria professione. Sono però diventato un gamer “consapevole” solo con Final Fantasy VIII sulla prima PlayStation: con il GDR di Square Enix ho capito cosa significa fare un videogioco, costruirlo in ogni suo aspetto, portando ancora nel cuore le sue musiche, i suoi filmati in computer grafica e i suoi personaggi.
Sembri una persona molto determinata e sicura di sé. Come ti immagini i prossimi step della tua carriera?
Ho letto dell’accordo tra Sony e Microsoft per il gioco in streaming. La strada credo sia quella, con tanti grandissimi attori che si stanno buttando sul mercato dei videogiochi, come Google appunto. Mi intriga il futuro e come questo si potrebbe sviluppare: il mio lavoro è così ampio che non è facile definirlo, ma mi piacerebbe lavorare in un grande mondo online persistente, magari supportato dalla potenza della tecnologia cloud. Se posso osare, poi, sogno un riconoscimento autoriale per un mio gioco, una creazione che porta la mia firma e che possa divertire milioni di persone in tutto il mondo.