Grazie alla distribuzione di Wanted Cinema, dal 6 maggio esce nei cinema John McEnroe – L’impero della perfezione di Jean Faraut, un documentario che ha ben poco del biopic tradizionale. Cosa giustissima, dato che McEnroe di tradizionale ha ben poco. Il più grande esperto di tennis italiano, Gianni Clerici, una volta ha detto che i suoi colpi riproducono “le astratte geometrie della pittura di Mondrian”. E in un libro che aiuta molto a comprenderne il carattere, Essere John McEnroe, Tim Adams ha scritto che è l’unico tennista che dà l’impressione di pensare nel momento esatto in cui sta eseguendo il colpo. Di lì, forse, deriva quello stile inimitabile di gesti lenti ed estenuanti, che sembrano affiorare da un faticoso lavorio più mentale che fisico. Il che però ha dato vita a una delle più alte espressioni della storia di questo sport, un gioco creativo e imprevedibile che ha sempre inseguito ossessivamente un ideale di perfezione, sebbene fosse composto di gesti che qualunque maestro di tennis avrebbe trovato inaccettabili.
Sì, perché McEnroe è sempre stato un atleta eccentrico, appartenente alla famiglia dei campioni alla Diego Armando Maradona, per i quali il talento è una chiave attraverso cui lo sport accede all’ambito della ricerca della bellezza, l’estetica e l’arte. Spingendosi fino al punto in cui il tennis incontra l’arte cinematografica e si pone in dialogo con essa.
John McEnroe – L’impero della perfezione è un singolare film-saggio che sovrappone tennis e cinema, sulla scorta di un’affermazioni tanto affascinante quanto apodittica di Jean-Luc Godard, secondo il quale “I film mentono, lo sport no”. Ed effettivamente nell’atleta John McEnroe tutto propende verso una disarmante sincerità, persino la sua leggendaria rabbia, indice della sua incapacità di mentire e dell’estrema serietà con cui ha sempre vissuto il tennis.
Forte della suggestione godardiana – un regista che ha sempre sostenuto esserci una profonda intimità tra lo scambio tennistico e lo scambio delle battute di un dialogo – Faraut ha svolto un’indagine che ricorda molto lo stile del maestro della Nouvelle Vague, con un montaggio frammentato e interrogativo, le scritte in sovrimpressione fortemente graficizzate, la voce fuori campo a commento e a contrasto (è dell’attore Mathieu Amalric). Così il personaggio McEnroe, più che raccontato, viene posto sul tavolo operatorio e scomposto, partendo dagli straordinari materiali in 16mm girati negli anni Ottanta da Gil de Kermadec, ex tennista che s’era dedicato al documentario sportivo a fini didattici, costruendo un archivio di filmati mossi dall’ambizione di mostrare degli atleti ciò che l’occhio nudo non riesce a vedere.
John McEnroe – L’impero della perfezione perciò opera a un duplice livello, integrando due sguardi differenti ma sorprendentemente coerenti: il primo di Kermadec, che ha filmato McEnroe al torneo di Roland Garros per metterne in luce i segreti dello stile tennistico e forse del carattere; il secondo di Faraut, che utilizza gli strumenti del linguaggio cinematografico – montaggio, grafica, sonoro – per compiere un’indagine allo stesso tempo psicanalitica (su McEnroe), filosofica (sulla fenomenologia dello sport), metacinematografica.
Non pago, Faraut aggiunge al pantheon dei riferimenti anche Serge Daney, massimo critico cinematografico francese nonché grande appassionato di tennis (tenne per un decennio una rubrica sportiva su Libération), secondo il quale sarebbe il tempo, altro impegnativo tema filosofico, il piano su cui cinema e tennis trovano il punto di convergenza.
E impegnativo così finisce per essere il documentario di Jean Faraut: intrigante per lo sguardo obliquo che getta sul personaggio McEnroe, all’incrocio tra tennis, cinema e arte; ma anche un film ripiegato nel suo sperimentalismo, più cerebrale che autenticamente lucido.