I miracoli accadono.
Detto così sembra quasi l’incipit di un film di Natale, da immaginare con una strada trafficata di città ripresa dall’alto, la neve che scende a fiocchi grossi.
Ma in effetti i miracoli accadono davvero, anche in primavera, anche sotto la assai meno romantica pioggia. Anche se chiamarli miracoli è forse riduttivo, perché è facile fare i miracoli se sei Dio, immagino, un po’ meno se sei semplicemente un essere umano. O un gruppo di esseri umani. Figuriamoci se poi gli esseri umani in questione sono donne, le stesse che passano le giornate a dover dare costantemente prova di essere all’altezza di tutta quella gamma di stereotipi che le vogliono costantemente e perennemente giovani, belle, accoglienti, multitasking.
Sto andando fuori tema.
Più che se avessi davvero iniziato a parlare di una strada trafficata di città coperta dalla neve.
Il fatto è che ieri, all’Angelo Mai di Roma, centro culturale e controculturale che andrebbe coccolato come si dovrebbe sempre fare con le cose preziose, un gruppo di donne, una trentina per la precisione, ha dimostrato come i miracoli si possono fare anche senza bisogno di essere Dio.
Mentre infatti su Rai3 si susseguivano le gig del palco di Piazza San Giovanni, in quello che a tutti gli effetti è stato il Concertone del Primo Maggio più maschilista a memoria d’uomo, neanche una donna solista in cartellone, pochissime artiste presenti, dentro le formazioni andate in scena nel pomeriggio, qualche nome qua e là, passato da contest e infilati in scaletta da entità esterne, ecco, mentre su Rai3 si sussguivano le gig del palco di Piazza San Giovanni all’Angelo Mai di Roma andava in scena il May Così Tante, un Primo Maggio totalmente al femminile organizzato in quattro e quattro otto da Diana Tejera, Angela Baraldi e Beatrice Tomassetti. Un cast di ventinove artiste, tutte di grande talento, tutte meritevoli, se solo ci si fosse sforzati un minimo di aprire gli occhi, di salire sul palco di Piazza San Giovanni, tutte accorse in questa adunata spontanea per festeggiare la Festa dei Lavoratori facendo il proprio lavoro, suonare e cantare.
Perché, qui sta un altro miracolo, anche più grosso, checché ne dica Ambra, che come sapete ha sbottato piccata durante la conferenza stampa di lancio del Concertone, dicendo che questa non è una polemica seria, che più serio sarebbe parlare di differenza salariali tra uomo e donna, quello che sembra essere sfuggito sia agli organizzatori di Piazza San Giovanni, Massimo Bonelli di iCompany per conto dei sindacati, sia alla stessa Ambra, è che le cantautrici di lavoro cantano e suonano, e se le si impedisce di farlo per miopia, per ignoranza o magari, ma speriamo tutti non sia questo il caso, per interesse, perché non dotate dei pesi specifici giusti alle spalle, beh, si sta facendo una discriminazione sul lavoro pari a quelle che subiscono le tante donne, praticamente tute, che si vedono passare avanti dagli uomini sul posto del lavoro, che vedono, a parità di livello, i colleghi maschi guadagnare assai di più e che, più in generale, devono sempre dimostrare qualcosa in più dei colleghi maschi, tra le mille difficoltà del caso. Faccenda, questa, che ben conoscono entrambi, sia Bonelli, col quale più volte si è parlato di fare qualcosa riguardo al cantautorato femminile, salvo poi dimenticarsene proprio mentre gestisce un evento mainstream come questo, sia Ambra, che è artista e con questa condizione si trova quotidianamente a fare i conti.
Ora, lo so, qualcuna o qualcuno potrebbe indicarmi come uomo che pratica il mansplaining, un neologismo che indica quell’atteggiamento tra il bonario e il paternalistico di certi uomini che tendono a spiegare alle donne cose anche ovvie, partendo dal presupposto che loro, gli uomini, sanno e possono dire, mentre loro, le donne, non capiscono e devono stare a sentire. In verità sto semplicemente limitandomi a raccontare quello che vedo. Certo da una posizione privilegiata, quella di un critico musicale con una certa visibilità che, nel corso degli anni, ha provato a spostare la visibilità acquisita grazie a prese di posizioni anche leggere, come quella contro certa musica di merda di certi artisti molto noti, e più spesso prese di posizioni pesanti, si pensi alla questione Baglioni/Salzano fatta scoppiare durante l’ultimo Festival di Sanremo, anche grazie a Dagospia e Striscia la Notizia, ecco quindi un critico musicale che da anni cerca di spostare la visibilità acquisita su fenomeni di conclamata bellezza artistica per strani casi, si fa per dire, del destino rimasti ai margini del sistema musica. Fatto, questo, che mi ha portato a diventare per certi versi un referente del cantautorato femminile, quindi semplicemente persona informata dei fatti e ben disposta a condividerli, questi fatti. E qui torniamo a quel che è successo ieri, all’Angelo Mai, e a quello che, forse scivolando nel mansplaining, non fosse che mi sto confrontando con artiste, non sto parlando da un pulpito. Io credo che la serata di ieri, accolta con estremo interesse da parte del pubblico, al punto che sin dalle prime ore della sera gli organizzatori hanno lanciato sui social un invito a non accorrere in loco, perché il locale era già pieno oltre ogni limite, ecco, la serata di ieri sera, messa su dalle tre menti pensanti di Diana Tejera, Angela Baraldi e Beatrice Tomassetti, dimostra due cose semplici, ma di cui non si può e non si deve tenere conto. Primo, che le cantautrici italiane esistono e sono di grande qualità. Una qualità, lo scrivo da tempo, assai superiore in termini di inventiva e sperimentazione, a quella dei colleghi maschi, forse in virtù di una maggiore libertà concessa loro dal fatto che tanto il mercato non le caga comunque. Secondo, se le cantautrici volessero, potrebbero davvero dar vita a una rivoluzione culturale. E qui mi spiego, e vengo a un passo ulteriore. Prima però sottolineo ancora una volta il mio fastidio nei confronti delle quote rosa, la mia speranza recondita, speranza di tutte le artiste ieri presenti all’Angelo Mai, e anche a tutte quelle che non sono potute andare, tantissime, cioè che presto non sia più necessario fare distinzioni di genere, perché non ce ne sarà più bisogno. Speranza forse vana, ma pur sempre speranza.
Ecco, torno al nocciolo della faccenda. Dando vita a una brevissima deviazione. Nel corso degli anni ho avuto modo di interfacciarmi con circa duecentocinquanta cantautrici indipendenti. Indipendenti nel pensiero, certamente, ma anche discograficamente, perché quasi sempre tenute a margine dalla filiera musicale, e quindi costrette all’autarchia. Questo mio interfacciarmi è finito in una serie di progetti che si sono mossi sotto un cappello, Anatomia Femminile, che cercava proprio di fare quel che dicevo prima, dare un po’ di immeritata visibilità, la mia, a chi se la sarebbe davvero meritata, le cantautrici.
Prendiamo queste duecentocinquanta cantautrici. Toh, mettiamocene un altro centinaio che non conosco, non ho avuto modo di conoscere anche avendo voluto, o non mi è ancora capitato di conoscere. Trecentocinquanta. Diciamo che di queste trecentocinquanta metà non sono interessate, o non lo sono più, a far parte di un movimento femminile, per tutte le ragioni del caso, tutte legittime, ci mancherebbe altro. Diciamo che qualcuna, nel mentre, si è ritirata, perché essere autarchiche costa. Diciamo che qualcuna è diventata mainstream, e quindi non si sente più in necessità di fare gruppo. Toh, arriviamo a centocinquanta nomi, anche cento. Bene, se cento cantautrici, fidatevi di me, tutte di grande livello, alcune di grandissimo livello, altre in crescita ma comunque in media con i colleghi maschi visti ieri a Piazza San Giovanni. Ecco, se cento cantautrici facessero cartello potrebbero non solo organizzare un festival, non solo una serata come quella di ieri all’Angelo Mai, ma addirittura muoversi compatte verso il mercato. Andare da Spotify, da Vevo, da un promoter, mettere su una realtà discografica seria, o interfacciarsi con una di quelle già esistenti. Fare cartello, insomma. Un po’ come fa Altroconsumo quando lancia le sue aste per le bollette di luce e gas. Avendo settantamila utenti che aderiscono hanno un forte potere contrattuale con cui muovesi verso i fornitori di luce e gas e chiedere tariffe vantaggiose. Qui, in più, c’è l’arte, non solo i numeri che così tante artiste sotto un solo cappello potrebbero muovere. Tanta arte. Variegata, libera, contemporanea.
Per questo con Tosca, artista a sua volta dotata di grande spirito autarchico, ma ben disposta a far gruppo, l’esperienza dell’Officina della Arti Pier Paolo Pasolini insegna, abbiamo deciso di lanciare una iniziativa che potrebbe essere un momento a metà strada tra un Festival musicale al femminile e gli Stati Generali del Cantautorato Femminile. Abbiamo un titolo “Musica, femminile plurale”, perché la musica è sì donna, ma è e deve essere anche movimento compatto. Abbiamo la location, l’Officina Pasolini di Roma, appunto, e una data, il 27 giugno. Abbiamo un numero incredibile di artiste che stanno già aderendo, a partire da quante ieri si sono esibite all’Angelo Mai, dando vita a quel grande miracolo. A questo punto ci vorrebbe anche Ambra, così, tanto per confrontarsi con un gruppo incredibile di artiste, col loro lavoro e magari per farsi testimonial di un mondo, quello del cantautorato femminile, che purtroppo ieri su quel palco mainstream non è stato rappresentato.
Anche questo potrebbe diventare un piccolo grande miracolo.
P.S. Il giorno dopo “Musica, femminile plurale”, il 28 giugno, a Genova inizierà il Lilith Festival, coordinato da Cristina Nico, Sabrina Napoleone e Valentina Amandolese, ieri sul palco dell’Angelo Mai, un festival che da dieci anni spinge il cantautorato femminile e che a questo è totalmente dedicato, altra tappa fondamentale per la scoperta di artiste che meritano attenzione.