Sarà che sono cresciuto nel quartiere sbagliato.
Sarà che certe attitudini uno se le ritrova lì, scritte nel DNA.
Sarà quel che sarà, ma sin da quando ero piccolo io ho sempre ritenuto che essere uguale a tutti gli altri non è che fosse questa gran cosa.
Forse perché, appunto, sputato per sbaglio in un quartiere altoborghese, causa terremoto del ’72 che aveva distrutto la nostra casa nel centro storico, allora popolare, e le case vuote messe a disposizione da chi, evidentemente, ne aveva più di una, il prefetto di Macerata nel nostro caso, io figlio di un impiegato dell’azienda tranviaria di Ancona e di una casalinga, ero in effetti diverso dagli altri. Intendiamoci, non che mi mancasse niente, ma erano i dettagli, come canterebbe Ruggeri, che uccidono la poesia. Tutti quelli con cui avevo a che fare, suppergiù, erano piuttosto ricchi. Io no. E questi sono dettagli che si notano. Specie quando, per dire, arrivato alla fine delle medie rimani l’unico a piedi, con tutti a sfrecciare su motorini, all’epoca andava per la maggiore il Ciao.
Ma tornando all’essere uguali, ho sempre pensato che essere diversi fosse quello che rendeva la vita interessante. Non solo l’essere io diverso, ma il fatto che tutti fossimo in fondo diversi. Altroché uguaglianza. Sai che palle.
Faccio un esempio. In quegli anni, parliamo degli anni Settanta, tutti o quasi tifavano Juventus. Era la Juventus la squadra che vinceva più spesso, anche se all’epoca non era come oggi, senza storia, e era la Juventus che regalava buona parte dei propri campioni alla Nazionale, la stessa Nazionale che, ai tempi delle medie, delle mie medie, mi avrebbe ragalato la clamorosa vittoria ai Mondiali di Spagna contro il Brasile di Zico e l’Argentina di Maradona, oltreché, ovviamente, la Germania di Rumenigge. Tutti tifavano Juventus, anche tutta la mia famiglia. Tifano ancora tutti Juventus, anche i miei figli, indottrinati da mio padre. Io, subito dopo aver iniziato a giocare a Subbuteo, ho fatto la mia prima scelta di diversità, o meglio di presa di coscienza della mia diversità, oggi per fare il figo la chiamerei magari iconoclastia, ma quello era, ho deciso di tifare Genoa. Non solo perché non volevo avere la stessa squadra di Subbuteo che avevano tutti, la Juventus, ma per non avere l’altra squadra che tutti volevano avere, quella con la maglietta da ciclisti, considerata dai bambini più bella, la Sampdoria. Il mio ragionamento da iconoclasta è stato, all’incirca, tutti vogliono la Juventus e la Samp, io prendo l’altra squadra di Genova, quella meno figa, il Genoa. E da allora così è stato e così è, nonostante Preziosi. Rivendicavo il mio essere diverso dagli altri, mi distinguevo o almeno ci provavo.
E così è sempre stato anche nel resto della mia vita. Tutti giocavano a calcio e io suonavo violoncello, negandomi questo piacere, salvo poi, scoperto che di piacere si trattava, ho deciso di mollare la musica classica per darmi al calcio giocato. Anche lì, complice la frattura del malleolo destro, procuratami durante uno scontro di gioco, ho deciso di diventare mancino. Sì, lo so che detto così suona strano, ma ho la testa dura, molto dura. E evidentemente un po’ mancino lo devo essere di mio, dal momento che non ho difficoltà a usare la mano sinistra anche per svolgere operazioni che solitamente prevedono che un ambidestro faccia con la destra, ma tornando al calcio, a undici anni, la gamba destra ingessata, ho deciso che da quel momento sarei diventato mancino. Nessuno dei miei amici era mancino. E essere mancini mi sembrava qualcosa di originale, anche di utile, visto che in tutti i casi la destra, parlo di gambe non solo di mani, la sapevo usare bene. Così ho iniziato a esercitarmi e alla fine mancino ci sono diventato, passando dal giocare da mezzala destra, quella che all’epoca, coi numeri sulle maglie che andavano categoricamente dall’uno all’undici, era l’otto, all’ala sinistra, cioè l’undici. Un’ala sinistra che sapeva usare entrambi i piedi, per altro, era cosa rara. Ripeto, cercavo e cerco costantemente la diversità.
Quando dopo un paio di anni di distanza dalla musica, causa abbandono del conservatorio e full immersion nel mondo del calcio, ho iniziato a riavvicinarmi alla musica, puntando sul rock e la musica leggera, imbracciando la chitarra e ascoltando voracemente di tutto, da quello che passava da casa mia, la west coast o Le Orme, da parte di mio fratello Marco, Baglioni e i cantautori da parte di mia sorella Caterina, a quello che passava nelle case dei miei amici, dalla new wave al punk, passando davvero per tutto lo scibile umano, ho deciso che non mi sarei fatto fregare dai cliché, e che se proprio a un cliché dovevo fare riferimento, sarebbe stato il mio.
Ero, lo sono ancora, un giovane punk che ascoltava anche Baglioni, e che pur cercando di suonare male, sapeva anche mettersi al pianoforte e muovere le mani sulla tastiera. Ero un giovane punk coi capelli lunghi, altra faccenda strana, cioè avevo un look da metallaro ma non ascoltavo Heavy Metal, anzi, ascoltavo la musica che ai metallari stava sul cazzo. Ascoltavo e ascolto la musica che piaceva a me, senza prestare attenzioni alle convenzioni, convinto come ero e come sono che la ricchezza stia nella diversità.
Forse anche perché sono cresciuto in un’epoca vorace, in cui si aveva fame di cambiamenti, di rivendicare il proprio esserci, e per rivendicare il proprio esserci tocca giocoforza mettersi in qualche modo in evidenza, dire: ecco, io sono questo qui.
Oggi, e lo so che sembro ancora una volta un vecchio brontolone, la faccenda mi sembra diversa. C’è decisamente più facilità a ascoltare la musica rispetto ai miei tempi, e c’è una quantità impressionante di musica da ascoltare. Perché abbiamo a disposizione davvero tutto quello che viene prodotto, con un click, e perché, anche in virtù dei click, viene prodotta con molti meno costi molta più musica. Ma i suoni tendono a assomigliarsi tutti. Come se avessimo di fronte due sole strade percorribili. Parlo dell’Italia, ovviamente, col suo ritardo cronico di circa un paio d’anni, ma il discorso potrebbe estendersi almeno a tutto l’occidente. Non è tanto e solo quello, intendiamoci, non è solo il provare a farsi inglobare nella trap o in quella forma di pop che sta a metà strada tra l’electropop e l’indie, è la necessità di stare nel coro che mi spaventa. Manca l’iconoclastia, la volontà di essere altro, e per questo di essere se stessi.
Basti guardare ai miei colleghi. Tutti costantemente a inseguire i Mi Piace, e non solo quelli dei lettori, anzi, prima quelli degli artisti e poi quelli dei lettori. Come se tutto dovesse essere sempre bello, rassicurante. E come se niente di quello che esce dai canoni, e fortunatamente di musica fuori dai canoni c’è, anche se non entra nel sistema, viene tenuta a lato dal mercato, e quindi tocca costantemente andarsela a cercare manco fossimo rabdomanti nel deserto, è come se niente di quello che esce dai canoni sia degno di nota. E lo stesso si potrebbe applicare alla critica specializzata, incapace di guardare al mainstream senza provare fastidio.
Chiaro, il rischio di finire per essere quello che va costantemente contro corrente è lì, sempre a portata di mano, ma siccome in epoca di iperconnessione è sulla reputazione che si basa tutto, il giochino del bastian contrario durerebbe davvero poco non fosse supportato da solide basi, ben lo sanno i tanti piccoli cloni che ciclicamente spuntano fuori, provano a brillare e dopo un po’ si spengono come piccoli petardi bagnati.
Il bello di oggi, perché di bello voglio parlare, è che abbiamo davvero a disposizione il mondo. Non soffermiamoci alle playlist di Spotify, perché anche le playlist più originali sono le playlist che qualcuno ha creato per noi, e non certo o non necessariamente per ragioni nobili. Andiamo a contaminare la musica che ascoltiamo. E soprattutto andate a contaminare la musica che suonate. Non inseguite quei soliti suoni di merda. Siate unici, anche a costo di non essere decodificati già al primo ascolto.
Fate vostro questo slogan, valido quando ero bambino e ancora più valido oggi: non sono io a essere diverso, siete voi che siete tutti uguali.