Due ore. Chiedo solo due ore del tuo tempo per spiegarti che io e te, in fondo, non siamo poi così diversi. Se ci incontrasse per caso e dovesse invitarci a conoscere la sua storia, probabilmente Ryan O’Connell ci direbbe qualcosa di simile. Ed è un po’ ciò che cerchiamo di fare anche noi con questa recensione di Special su Netflix, disponibile in streaming dal 12 aprile. Solo che a noi basteranno molto meno di due ore.
Come scopriamo fin dal trailer della serie, Ryan Hayes – interpretato dallo stesso O’Connell – è un ragazzo gay affetto da una forma lieve di paralisi cerebrale. Dopo un banale incidente d’auto ha l’opportunità di svolgere un tirocinio come blogger presso Eggwoke, rivista online di cui lui stesso, in quanto millennial, rappresenta il pubblico ideale. Stufo e a disagio per via dei vincoli della disabilità, Ryan mente ai nuovi colleghi e attribuisce la causa delle sue difficoltà motorie allo stesso incidente. Si presenta così l’occasione di dare un colpo di spugna alle limitazioni imposte dalla paralisi cerebrale, o perlomeno alle percezioni che gli altri hanno delle stesse, e provare quindi ad affrontare la vita da una prospettiva diversa.
La serie mette subito in evidenza l’irrequietezza di Ryan, che dice di sentirsi intrappolato in un limbo, non abbastanza normodotato per ignorare la propria condizione ma neppure abbastanza disabile da dover convivere con i condizionamenti di chi, per esempio, è costretto su una sedia a rotelle. Ma tu sei fortunato, sei un privilegiato, gli ricorda il suo fisioterapista, fattene una ragione. E fin da queste prime scene cogliamo una peculiarità di Special, la sua inconfondibile etichetta didascalica, come se una rumorosa sirena e dei grandi segnali al neon inquadrassero un dialogo, un’espressione del viso, un silenzio, un appunto per suggerirci: hey, badate bene, questa è una lezione di vita.
Nel prenderci per mano e accompagnarci in una quotidianità che tenta di reinventarsi senza mai riuscirci fino in fondo, Special su Netflix rivela tutto ciò che di poco originale sceglie per dare sostanza alla propria narrazione. Abbiamo il capo perfido, una donna instabile dipendente dagli psicofarmaci. Abbiamo le finte amiche dei tempi del college che – guarda caso – non si fanno vive nel momento del bisogno. E abbiamo Kim, la collega (pro)positiva, l’amicona-da-subito, grande dispensatrice di lezioni di vita e positività verso sé stessi e il proprio essere speciali, e che in effetti si rivela presto un’amica vera.
Fin dal primo giorno di lavoro Kim prende Ryan sotto la sua ala, interpreta per lui le dinamiche lavorative in redazione, lo aiuta a mettersi in gioco in contesti sociali che Ryan crede destinati ai belli-e-perfetti. Come se non bastasse, è la stessa Kim a convincere l’amico a rivolgersi a un assistente sessuale per avere il suo primo rapporto. La scena in questione è esplicita ma non morbosa e si qualifica come uno dei momenti più onesti della serie, un accostamento naturale tra l’imbarazzo carico di aspettativa di un giovane inesperto e la disinvoltura mai arrogante di un professionista del sesso.
Il ruolo di mentore che Kim assume con entusiasmo nei confronti di Ryan non evita comunque alla giovane di incappare in ostacoli ed errori di valutazione. Come capita spesso, anche per lei l’apparente sicurezza, la convinzione di essere in pace con l’universo e di aver capito come vanno le cose sono perlopiù muri eretti a difesa delle proprie debolezze, delle insicurezze legate al fatto di essere non-bianca, non-magra. L’abbigliamento di marca, gli accessori costosi e il make up diventano per lei dei feticci, venerati perché simboli di uno status al quale altrimenti Kim crede di non poter aspirare. Lo rivela lei stessa in uno dei molteplici momenti didattici della serie, perché Ryan possa fare ancora un altro passo verso ciò che la vita dovrebbe essere e allontanarsi da ciò che lui crede debba essere.
Un altro tra i rapporti cruciali all’interno della storia è quello tra Ryan e sua madre, Karen, un’infermiera dolce e di buon cuore che ha sviluppato un irrimediabile rapporto di codipendenza con il figlio. Quando Ryan inizia a manifestare il desiderio di andare a vivere da solo, Karen esprime un palese senso di rifiuto, tergiversando o cambiando argomento per non affrontare l’annosa questione. Si tratta di una reazione comprensibile: non è certa che il figlio possa farcela da solo e i suoi dubbi sono la risposta tipica di chi ha dedicato la propria vita alla cura di un familiare e si ritrova smarrito, senza più punti di riferimento, persino incapace di riconoscersi e dare un senso alla propria esistenza quando le cose cambiano, la parte debole si emancipa o la situazione si evolve per qualsiasi motivo.
La povera Karen si concede solo un breve assaggio di felicità quando, rimasta sola in casa, decide di iniziare a frequentare l’attraente nuovo vicino di casa, Phil, e di avere una relazione con lui. L’intesa tra loro è immediata e dopo quasi trent’anni passati a prendersi cura del figlio e della madre affetta da demenza senile, sembra arrivato anche per lei il momento di tirare il fiato e dedicarsi un po’ al proprio benessere. Sembra, appunto. Perché ben presto l’ingombrante – seppur involontaria – straripanza di Ryan e delle sue necessità si scontrano col rifiuto di Phil di avere una relazione col figlio di qualcun altro.
La serie volge alla conclusione e la grande epifania di Ryan si manifesta dopo un breve, intenso colloquio con Olivia, il suo capo. Pur avendo evidenziato più volte una dubbia moralità, la donna riesce a colpirlo in un punto scoperto nel momento in cui lo accusa di essere incapace di accettarsi nella propria disabilità, di manifestare un rifiuto, perfino un senso di superiorità rispetto alle disabilità degli altri. All’instabile, problematica Olivia spetta il compito di penetrare il ragazzo fin nel profondo e svelare una dura verità: Ryan non ha bisogno di essere coccolato, ma trattato con durezza, per poter finalmente iniziare ad amarsi. E in effetti ha ragione. Ryan comprende così che è arrivato il momento di smettere di nascondere la propria disabilità e iniziare a vivere davvero a partire da ciò che lo rende speciale, non a dispetto di ciò che ritiene lo renda diverso.
La nostra recensione di Special su Netflix si conclude con una nota positiva. Pur con i suoi difetti strutturali e una certa atmosfera di amatorialità, questa comedy mordi e fuggi intenerisce in pochi minuti e conquista per l’universalità di certe sue dinamiche. Ha ragione Ryan O’Connell a dire che non serve essere affetti da paralisi cerebrale per empatizzare con il suo personaggio. Perché le percezioni estreme di sé, i dubbi nei rapporti interpersonali, la brama di libertà e il bisogno di definirsi al di fuori dalla sfera familiare non sono vincolati a una condizione fisica ma, appunto, universali.
Aspettiamo la conferma di una seconda stagione di Special per esplorare più in profondità dei temi mai scontati e dar seguito al cliffhanger con il quale si è concluso l’ultimo episodio, una bomba a orologeria di frustrazioni represse per anni e finalmente esplosa nel confronto tra Ryan e Karen. È davvero onesto da parte di un figlio accusare una madre che ha sacrificato così tanto, persino sé stessa, per prendersi cura di lui ogni istante della sua vita? La risposta, stavolta, è tutt’altro che universale.