La recensione di 1969 di Achille Lauro, la trap si rinnova con un disco che non innova

L'accostamento tra brand, sogni di gloria, autotune e chitarre distorte ci fa ancora storcere il naso


INTERAZIONI: 677

“1969” di Achille Lauro è stato indubbiamente il disco che ha incuriosito i più, prima della sua uscita. Dopo l’esperienza sanremese con Rolls Royce e dopo la gaffe di Striscia la notizia eravamo tutti incuriositi dal personaggio più controverso dell’Ariston, il ragazzo che faceva trap ma si affidava alle chitarre distorte per mettersi in gara. Ancora, l’ascolto di Rolls Royce era strutturato in tre fasi. La prima: «Ma che è ‘sta roba? Chi è questo?». La seconda: «Ancora? Che canzone è?». La terza: «Rolls Royce! Rolls Royce! Rolls Royce!».

“1969” di Achille Lauro arriva dopo l’esplosione social e media, con il brano sanremese e C’est la vie come aperitivo e tante chiacchiere lasciate in sospeso. Ci ritroviamo di fronte a un album sincretico, dove i cliché della trap – turpiloquio, denaro, ostentazione e autotune – tentano di fare coppia di fatto con il rock alternativo. Non è facile dire se le 10 tracce siano riuscite nell’intento, nemmeno dopo il terzo ascolto. Lo stesso artista aveva parlato di leggerezza e malinconia quali colonne portanti del disco, e la scelta del titolo “1969” è simbolica: è un numero che significa cambiamento. Nel 1969 l’uomo sbarcò sulla Luna e i Beatles suonarono al Rooftop Concert, ma il 69 è anche il numero dell’edizione sanremese che ha portato Achille Lauro per la prima volta all’Ariston.

Affiancato da Boss Doms, Achille Lauro sperimenta quella nuova dimensione che cerca di svecchiare la trap e offrire un nuovo prodotto. Ci è riuscito? Forse è riuscito a tentare, ma ridurre il senso del suo lavoro a una singola recensione potrebbe essere fazioso. Nel disco troviamo Coez e sentimento, riff di chitarra in muting e sinistre ballad. “1969” di Achille Lauro è un tentativo, sì, ma forse riuscirà una prossima volta.

Rolls Royce apre il disco e di nuovo quel giro armonico di chitarra ci sembra un doveroso tributo a 1979 degli Smashing Pumpkins, con quell’aria un po’ scanzonata e malinconica e quel rosario di rockstar che Achille invoca come esempio di bellezza e vita spericolata. Fermi, smettiamola di accostare Sid Vicious al trapper romano, perché i due non hanno attinenza. No, non stiamo parlando di grandezze diverse: Sid Vicious era una mina vagante, un ragazzo difficile e fuori controllo che riuscì anche a macchiarsi di omicidio, mentre Achille Lauro sa bene dove stare e cosa fare.

C’est la vie è una ballad acustica: «Non puoi uccidere l’amore, ma l’amore può». Chitarre acustiche e beat sommessi creano l’atmosfera catastrofica di una storia d’amore travagliata, di quelle in cui uno dei due spera che tutto finisca per evitare ulteriori sofferenze. Si ritorna ai motori glitterati con Cadillac. Riffone distorto, shuffle e suoni potenti alla Marilyn Manson. Achille scherza con le pesanti critiche: «Sono vestito strano ma ho una Cadillac», sputando sui detrattori ai quali ripete che ha il successo dalla sua parte. Lo fa con il rock e con il testosterone dei suoni, ma si calma con Je t’aime, nella quale troviamo Coez nell’incipit: «In fila per i soldi come Wall Strett, in fila per i sogni come Palm Springs, tu corri solo, Mulloholland Drive, ti ho chiesto “resta”, mi hai detto “vai”». Achille Lauro interviene e smorza la malinconia quando dice disperatamente di volere una Cabrio con gli interni beige e una villa come il Colosseo. La ricchezza e lo sfarzo diventano la cura per dimenticare, e la base decisamente synth-pop facilita l’iniezione di intimismo che la canzone vuole offrire.

Zucchero, altra ballad acida e leggera del disco, potrebbe configurarsi come il suggello della fine di una storia. Lui, come ultima mossa, offre una rosa di soldi e promette di comprare Castel Sant’Angelo, e anche in questo caso troviamo i denari come unico medicinale contro una rottura. Ritorna la freschezza con 1969, la title-track dedicata alla madre. Movimento e rock accompagnano un testo in cui Achille Lauro investe i suoi soldi per ricomprare casa, fare la spesa e compare regali in una boutique. Lui si trova sulla Luna, e ce lo fa sapere in un ritornello che sa molto di canzone dell’estate.

Roma, celebrativa e cantata in dialetto romanesco e con l’autotune, racconta la vita romana dei ragazzi: «Ho perso i miei fratelli in questa me**a di città». Il beat malinconico regge il testo: «Il mondo è così comico, le persone buone muoiono» e il messaggio si conclude con una dedica: «Pe’ i miei ragazzi, per sempre». Sexy ugly, dal titolo ossimorico, è il pezzo meno riuscito di “1969” di Achille Lauro: un insieme di citazioni, marche, brand e parole a caso su un arrangiamento velatamente alternative che fa passare inosservata la canzone. Delinquente, rock come Rolls RoyceCadillac1969, prende in giro i bulli di quartiere che litigano al bar ma che la domenica vanno a Messa: «Figlio di un Dio, figlio di un bar».

Scusa è il brano più intenso, in proporzione con le altre 9 tracce, di “1969” di Achille Lauro. L’arrangiamento scomoda sonorità ricercate e archi. Ancora una volta il trapper ci parla della fine di un amore: «Salvi per amore ma l’amore è odiare, imparare a farlo senza farsi male», e cerca di nuovo rifugio nei brand: «Siamo Mon Chéri, siamo Moët e Chandon». Con Scusa si chiude “1969” di Achille Lauro, un disco atteso ma che ha disatteso le aspettative, o forse le ha solamente confermate. I pezzi del disco entrano in testa ma non entrano nel cuore, e probabilmente Achille Lauro vuole proprio questo. Lo ha fatto con Rolls Royce e ci è riuscito, grazie alla gaffe di Valerio Staffelli e alla sua bizzarra canzone, valorizzata da Morgan durante la serata dei duetti di Sanremo.

C’è dell’umanità, tuttavia, quando Achille volge lo sguardo alla sua città e ai suoi amici, i suoi ragazzi, quelli che vivono ancora sotto il cielo di Roma o che non sono più di questo mondo. Achille imbraccia la chitarra, fa ondeggiare un microfono vintage e sorride beffardo al pubblico, ma i suoi versi parlano anche d’amore quando questo finisce o rischia di ucciderlo. Aspettarsi il massimo da “1969” di Achille Lauro potrebbe essere rischioso, perché la sperimentazione del trapper romano maturata con Boss Doms è già stata un rischio. Conviene ascoltarlo per farsi un’idea, semplicemente, nella consapevolezza che potrebbe esser dimenticato.