Non so cosa fate voi quando ascoltate una canzone. Io, ma suppongo non sia cosa di cui fare vanto in pubblico, tendo a provare a dividere il brano per tracce, andando a identificarle una a una. Chiaramente il passo successivo è quello di provare a riprodurle, quelle ritmiche andando a battere con le mani sulle cosce, se come spesso capita mentre ascolto musica sto seduto, in auto o davanti al mio PC, le altre seguendone le linee melodiche, i riff, le armonie.
Una vita di merda, la mia, perché spesso riesco a entrare emotivamente dentro una canzone solo dopo averla dissezionata, manco fossimo in una sala autoptica e io fossi uno di quegli scienziati che si divertono a passare il tempo con le mani infilati tra le budella dei cadaveri. Non che una volta entrato in contatto emotivo con un brano la mia tendenza alla vivisezione delle canzoni cessi, ma almeno so già di che si tratta, non devo star lì a provare troppo a cercare il cavillo.
Ciò nonostante sono un ascoltatore compulsivo di canzoni. Di quelli, per intendersi, capaci di ascoltare una stessa canzone anche per qualche ora di fila.
Una ventina di anni fa, per dire, quando ancora avevo nella mia vecchia auto, una Punto Blu, un lettore cd che permetteva anche l’utilizzo di audiocassette (toccava alzare la mascherina, di quelle che si portavano via per paura che qualcuno ci fottesse l’autoradio, come se la gente cercasse autoradio di valore dentro una Punto Blu, che stupidi, e c’era l’apposita fessura per le audiocassette), ho fatto un lungo viaggio Milano-Ancona in autostrada, lungo perché ancora tutta la tratta fino a Bologna era solo a tre corsie e da Rimini in poi ce n’erano addirittura solo due, ascoltando Push it dei Garbage, registrata in loop in una BASF da novanta minuti. E se so di che tipo di cassetta si tratta, a distanza di così tanti anni, è solo perché, nella mia monomaniacalità compravo solo quel tipo di audiocassette, su cui spesso registravo, appunto, un unico brano, così da poterlo ascoltare come succedeva, all’epoca, quando mettevi il tasto Repeat nel lettore cd. Sei ore di auto ascoltando Push it dei Garbage, non so se avete presente il brano in questione, roba da mandare fuori di testa chiunque. Ma all’epoca non avevo certo bisogno di Shirley Manson e soci per andare fuori di testa, ero già abbastanza scosso di mio, insonne per oltre un anno di fila e colpito su più fronti dalla vita.
Un’altra cassetta aveva Amazing degli Aerosmith, da Get a grip, un brano che ritengo ancora oggi un capolavoro, anche se, come un biscottino francese, mi apre ferite che non credo di essere in grado di richiudere da solo.
Ho fatto anche di peggio, e credo di averlo già raccontato altrove, forse in uno dei miei romanzi. Fissato con la pronuncia di alcune vocali da parte di certi cantanti, perché dovete sapere che i cantanti non sono tutti bravi a pronunciare le stesse lettere, e ci sono alcuni che tendono a usare quelle che suonano meglio in bocca a loro in tutte le canzoni, fissato con la pronuncia di alcune vocali da parte di certi cantanti, quindi, mi ero fatto una intera BASF da 90′ raccogliendo tutte le A di Raf. Avevo preso tutta la sua discografia in italiano e avevo tagliato, impiegandoci credo qualche giorno, tutte le parole che finivano per A, andando così a creare una compilation di vocali davvero agghiacciante. Peggio di Push it dei Garbage, come effetto, ma che nella mia testa suonava come qualcosa di rassicurante, decisamente più rassicurante di quel che il mondo intorno mi stava fornendo come corredo.
Perché le canzoni, di qui il mio tentativo di dissezionarle per decodificarle anche da un punto di vista tecnico, proprio per poter guardare bene negli occhi chi mi stava salvando la vita, hanno questa capacità del tutto naturale di portarci altrove. Ovunque questo altrove sia. E spesso è questo che alle canzoni chiediamo, di portarci in un posto meno spaventoso. O anche solo più gradevole di quello nel quale ci troviamo. Il che non implica, attenzione, che attraverso la musica si debba necessariamente scappare dalla realtà. Tutt’altro. Spesso le canzoni ci aiutano proprio a fare il contrario, ci forniscono dei mezzi che magari non sapremmo trovare in natura, o anche più semplicemente dentro di noi, così, al momento, per decodificare la realtà nella quale siamo immersi fino al collo. Per dire, saliamo sulla chitarra di Joe Perry che dal minuto 3:39 di Amazing ci sta per raccogliere da terra pronto a farci volare nell’iperspazio e per poco meno di tre minuti possiamo vedere il mondo da un punto di vista inedito, magari non riuscendo a capirci di più di prima, ma sicuramente con una prospettiva differente a disposizione.
Passo la vita a archiviare i vaffanculo dei fan di questo o quell’artista che si sentono offesi sul personale per le parole, evidentemente ritenute poco consone, se non addirittura offensive, rivolte alle canzoni dei propri beniamini. Letto quanto scritto su potete ben capire come non mi sia estraneo il sentimento di chi guarda alle canzoni come a qualcosa di molto vicino ai rapporti interpersonali, se non amorosi quantomeno affettivi. Ma vi sia chiaro che il mio intento non è certo quello di dirvi che non dovete innamorarvi di uno stronzo o di una stronza, no, è semmai quello di farvi capire che semplicemente è di quello che vi siete innamorati: di un pezzo di merda. Poi liberissimi di proseguire nel vostro rapporto amoroso, l’amore è cieco e via discorrendo, ma almeno con consapevolezza, che non vi capiti poi di dovervi pentire troppo tardi.
Capace che anche nel mio background ci siano storie d’amore musicale andate a male, tossiche, ma la voce graffiata e oppiacea di Grant Hart che grida Sorry somehow, quella dinoccolata di Ian Brown che si muove abilmente sopra le batterie più funky che la Gran Bretagna abbia saputo produrre nei primi anni Novanta, le voci angeliche di un Gerald Love, i falsetti di Prince, beh, quelli non me li potete proprio toccare, l’amore è cieco, mica è sordo.