Paolo Sorrentino lo ha spiegato più che bene, a metà strada tra il poetico e il didascalico, nella sua serie tv The Young Pope: non farsi vedere, essere invisibili, irriconoscibili, assenti è un modo efficacissimo per occupare la scena. Per essere al centro dell’attenzione e bucare lo schermo, con la propria silhouette vuota.
Nel delineare il profilo del papa giovane, infatti, il regista premio Oscar portava esempi illustri di grandi artisti divenuti vere e proprie icone pur non essendoci, dallo scrittore Salinger all’artista Bansky, dai Daft Punk a Kubrick fino alla nostra Mina. Tutti artisti che o non ci sono mai stati o hanno evitato come la peste le telecamere, le macchine fotografiche.
La negazione della possibilità di immortalarli è stato ed è il loro passaporto per l’immortalità.
Dello stesso avviso devono essere anche artisti più strettamente contemporanei, come i dj Marshmello, l’ormai ritirato Deadmaus5 o il nostro Bob Rifo dei Bloody Beetroots, tutti col volto mascherato, riconoscibile nel non essere il loro volto ma una maschera.
Chiaramente, nel momento in cui una strategia funziona, la si può applicare al mainstream come alla musica indipendente o di nicchia. Così succede che un nome come quello di Myss Keta, rapper milanese dal volto mascherato e dal corpo provocantemente scoperto abbia mese dopo mese sempre più hype, al punto che l’attesa per il suo nuovo lavoro, Paprika, seguito del fortunatissimo Una vita in CAPLOCKS, sia alle stelle, come in genere succede solo con le popstar acclarate.
E dire che le canzoni di Myss Keta non sono poi così commerciali, e che i testi delle canzoni, intrisi di droghe e sesso, seppur trattate con surreale ironia, non abbiano grandi chance di passare nelle radio nazionali. Anzi, non ne abbiano proprio nessuna, troppo espliciti per passare inosservati, come prima dei fatti di Corinaldo è capitato a buona parte dei brani trap.
Tra un duetto con quel fenomeno adolescenziale che risponde al nome di Il Pagante, fenomeno adolescenziale che induce imbarazzo in chi adolescente non è, va detto, e uno con Guè Pequeno, Myss Keta rischia di diventare davvero la prima popstar invisibile italiana, personaggio molto più potente delle sue stesse canzoni.
Anche perché, questo Myss Keta sembra averlo capito bene, a fronte di una invisibilità di lineamenti, con viso perennemente coperto dal burqua di Gucci (o di qualsiasi brand lo voglia indossare), Myss Keta esterna una esuberanza fisica assai visibile.
Intendiamoci, non è certo intenzione di chi ha presentato al TedX di Matera lo speech sulla desessualizzazione del pop italiano dal titolo Venere senza pelliccia, ispirato dal libro che porta lo stesso titolo e affronta lo stesso argomento e ha lo stesso autore, che poi sarei io, stigmatizzare l’utilizzo che Myss Keta fa del proprio corpo. Tutt’altro. Trovo semmai particolarmente geniale il suo unire questa esuberanza prorompente, le citazioni della Valeria Marini di Bigas Luna come quelle di Tinto Brass non sono lì a caso, a fianco del celare il volto, come a voler ulteriormente evidenziare una sessualità che ancora oggi ha bisogno di essere incorniciata in un contesto proibito, piccante come il titolo del suo ultimo lavoro.
Ultimo lavoro, uscito a solo un anno dal precedente, che si distacca molto, nei suoni come nelle atmosfere che si evincono dai testi, da Una vita in CAPLOCKS. Come se l’uno fosse il negativo dell’altro. Un notevole passo avanti, a dimostrazione che di cartucce nella propria cartuccera ce ne sono davvero tante, e di diverso tipo, mi verrebbe da dire se solo non mi fossi autoimposto di non parlare di album che portano la scritta ISLAND sulla copertina, per quella fatwa che il titolare della suddetta divisione della Universal Music Italia, Jacopo Pesce, ha deciso di mettere sul mio capo.
Ve ne ho parlato già in precedenza, e credo di aver dato a questo personaggio ben più attenzione di quanta non meriti, quindi mi limiterò a dire che, nonostante la ISLAND e nonostante Jacopo Pesce Myss Keta è una realtà da tenere d’occhio. E da tenere d’occhio è il suo personaggio. O meglio, è da tenere d’occhio solo il suo personaggio, visto che altro di Myss Keta non possiamo conoscere, celata da un burqa e occhiali da sole, e esibita nella sua rotonda sensualità sotto luci tendenti al rosso e a cavallo di una gigantesca mortadella bigasluniana.
Poi, chiaro, andrebbe aperto un capitolo a parte sulla quasi totale marginalizzazione delle donne nella scena rap e trap italiana. Marginalizzazione che con la stessa Myss Keta, come con Charia Rodriguez, Beba e Priestess, magari, in parte potrebbe anche incrinarsi, chi lo sa?, ma che al momento è lì, bella presente.
Myss Keta comunque c’è.
E si fa notare.
L’abito a volte fa il monaco, una maschera e un bikini striminzito possono fare una star, con o senza canzoni annesse.