Le dieci tracce di “È Sempre Bello” di Coez ci ricordano un microfono che Schopenhauer assemblerebbe con componenti di dolore e noia, ma l’amore è l’asta che lo sorregge. Sul palco, in sala prove o nello studio di registrazione, Coez riuscirebbe ad articolare con disinvoltura le sue metafore metropolitane senza sbagliare un colpo. La sua musica è sempre originale e il suo taglio, ancora di più, si orienta sul personale riuscendo a offrire al fortunato ascoltatore una prospettiva che si adatta ad ogni contenitore emozionale, grazie alla sua capacità di trovare la parola giusta al momento giusto, con il giusto suono e la perfetta armonia tra intimismo e mainstream.
“È Sempre Bello” di Coez arriva a due anni di distanza da “Faccio Un Casino” (2017) – di cui ricordiamo la bellissima title-track e la poetica La Musica Non C’è – e si colloca nel difficile percorso di maturità artistica che colpisce in forma virale tutti i musicanti, almeno una volta e per sempre. In dieci canzoni scopriamo un Silvano Albanese – il suo vero nome – ancora alle prese con chitarre da saletta e inserti elettronici, immerso in quello strano mondo che coniuga la chitarra da spiaggia, le gole irritate dall’after e la malinconia di chi vive il “mezzo del cammin di nostra vita” con la stessa sensibilità dell’adolescenza.
Al merito del trentacinquenne romano si accosta, indubbiamente, il talento e l’intuizione del produttore Niccolò Contessa, mente e braccio de I Cani, che nel disco di Coez quasi veste i panni del fratello maggiore che copre le spalle al piccolo di casa, ma senza scadere in un’invasione di campo. In “È Sempre Bello” di Coez troviamo atmosfere da club e scenari disinteressati di mattinate nuvolose. Tra una giornataccia e un’alba crepuscolare, però, troviamo un sole che riesce a imbarazzare la vista. Coez splende e fa splendere, e la sua poesia spigolosa si rende intelligibile a tutti, per non trovare più scuse.
Mal Di Gola è un risveglio che letteralmente viviamo assieme all’artista a partire dall’incipit, con una chitarra filtrata con l’effetto chorus che accompagna parole schiette: «Mi sveglia il mal di gola, ho tanta rabbia da sputarti in bocca». È una relazione che si chiude e che fa riconquistare il respiro. Il settima+ del ritornello evidenzia, comunque, la malinconia con l’apporto della batteria che singhiozza nelle dinamiche. Siamo su un Frecciarossa con la testa piegata sul finestrino e guardiamo fuori, non essendo più in grado di cercare risposte nella pancia. La malinconia continua timidamente, ma più frizzante, con la title-track.
Chitarre acustiche e tappeti vocali – con la voce sdoppiata in due ottave, il muro melodico che maggiormente appartiene a Coez – si rincorrono su percussioni divise tra cassa e clap. Il testo celebra la bellezza: «È sempre bello averti intorno» e crea l’unguento che ci prepara a Catene, il brano che prende in giro i freni inibitori con un arrangiamento tendente al vivace grazie ai pestaggi del piano rhodes, ma che si veste di intensità grazie all’impiego dei pad.
Coez non vede il bicchiere mezzo vuoto perché non vede proprio il bicchiere, ma è incapace di prendere il controllo, al punto di aver bisogno di un elastico per tenersi saldo, ma anche per stare insieme a lei: «Non credo al matrimonio in generale, in generale basta che mi vuoi bene. Ho alzato un gran casino e farei molto più casino se tu non stessi bene». Domenica è un tuffo nella canzone italiana degli anni ’80: lo dicono i synth, lo dice quella batteria sempre uguale, lo dicono quei pad e il basso sintetico usato e abusato dagli Stadio, da Vasco Rossi e dai New Order. Lo dice anche il tema: «Vorrei fosse domenica, entri in stadio alle partite, una coda patetica», e i nostri occhi visualizzano un’autoradio che gracchia vecchie cassette mentre noi siamo sul sedile posteriore, ancora piccoli e curiosi. Continua il revival, poi, sul finale: «Come fosse domenica con te, come fosse l’America con te».
Ora prendiamo un 6/8 e associamolo a un arpeggio di chitarra in bicordi con salti dalla prima alla quinta: è Fuori Di Me, la classica ricetta della semplicità di Coez, raffinata da un testo che racconta una confessione: «Fuori c’era un sole bello, ma avessi avuto un coltello forse sì, lo avrei voluto usare e mi sono fatto schifo». La rabbia di Coez è per il fallimento, l’incapacità di non perdere qualcuno che ne La Tua Canzone trova beneficio nell’ironia dell’incipit: «Amare te è facile come odiare la polizia». Le parole sono un regalo, in questo brano, che il cantautore offre alla sua lei quando i loro mondi si separeranno: «Sai, le canzoni non vanno mai via. Questa è la tua, sarà sempre qua per quando lo vorrai, per quando mi odierai».
La Tua Canzone si configura in un mazzo di fiori abbandonato sul sedile, trasportato per le occasioni migliori e accompagnato da un arrangiamento trascinante che sconfina nel pop-rock. Gratis ci conduce in un evento mondano, ma anche in questo caso siamo di fronte a una metafora: nel buffet in cui il cibo e i drink sono gratis Coez si sente stretto e vorrebbe uscire fuori per guardarla negli occhi, cercare l’intimità. La dichiarazione arriva come un dardo: «Fuori c’è un sole che spacca il c**o e com’è che ogni nuvola che vedo sembra il tuo cuscino? Ci voglio fare un giro». Tastiere oniriche, shuffle e dinamiche in progressione positiva colorano di luce e modestia una dichiarazione d’amore altrimenti troppo presuntuosa, ma alla quale è difficile rispondere con un rifiuto.
Ninna Nanna, come il titolo suggerisce, è il momento più pacato e raccolto del disco. “È Sempre Bello” di Coez trova, in Ninna Nanna, il momento del riposo che si disegna con una semplice ballata esposta in 6/8 e avvolta in semplici accordi di chitarra alterata da chorus e delay. Un piglio quasi blues accompagna un testo riflessivo. Si parte con una metafora sugli eccessi: «Polvere di stelle, polveri di quelle che ci fanno stare bene, ma non ci sto bene», e la filastrocca si sposta in uno studio medico con il dottore che ci chiede come stiamo, e noi mentiamo dicendo di stare bene, ma l’amore va male, l’amore non va.
Vai Con Dio, penultima tappa del nostro viaggio nell’umore assordante di “È Sempre Bello” di Coez, è il brano più rock del disco. Un piano elettrico in apertura fa l’occhiolino al brit-pop – Mary dei Supergrass, a suo tempo, volgeva lo sguardo ai Rolling Stones di Gimme Shelter proprio per l’intro – e si sposa con una cassa in continua successione. Il testo, ben assemblato all’arrangiamento, scherza sul sesso con giochi di parole: «Ti ho chiesto se mi pensavi con le mani. Vai con Dio, oh, vengo anch’io» e ancora: «Non smetto più di pensarti con le mani». Infine: «Se ti hanno visto bere a una fontana, ero io». C’è una chitarra distorta, c’è una batteria che spinge in alto e un decollo che culmina con Aeroplani. “È Sempre Bello” di Coez si chiude con una rappresentazione del passato, quando i velivoli diventano un pretesto per raccontare gli anni delle scoperte.
Aeroplani è un atterraggio, un ritorno a casa al termine del quale troviamo una stanza vuota e silenziosa, la stessa di Mal Di Gola che ci lascia soli e ci fa risvegliare nel torpore della noia: «Apri le mani come quando giocavamo a fare gli aeroplani, partivamo e dopo tornavamo giù, e se partiamo adesso torni solo tu». Sì, siamo tornati a casa e Coez chiude il cerchio, di nuovo con l’amarezza e con la desolazione, ma con la compagnia di un disco che diventa uno specchio, una voce amica e intimista.
Il disco è un nuovo step, un nuovo abito che arriva dopo aver lasciato in soffitta i panni del cattivo ragazzo del rap. Parliamo di umore assordante, giocando con le parole, perché pensare a “È Sempre Bello” di Coez senza scomodare gli effetti della sua nuova musica su tessuti e fluidi è impossibile quanto immorale.