Abusi, attivismo politico discutibile, razzismo nudo e crudo… Sembra che piccole e grandi star riescano a dare il peggio di sé con una disinvoltura alla quale abbiamo fatto l’abitudine. O perlomeno, così credevamo. Perché se davanti all’ennesima dichiarazione omofobica o a una mancanza di rispetto su un set riusciamo ormai a scrollare la testa e incolpare la grettezza di un singolo, con l’Operation Varsity Blues finiamo schiacciati dalle rivelazioni su un intero microcosmo di privilegi e arroganza. E perché per noi, e per Felicity Huffman, lo scandalo dei college disintegra una fiducia saldissima nel mito della donna normale.
È cominciato tutto nel 2004, quando nell’universo delizioso, dissacrante, indimenticabile di Wisteria Lane, la penna geniale di Marc Cherry ha tratteggiato lei, Lynette Scavo. Settimana dopo settimana, con la quieta obbedienza di chi non osa neppure sognare i privilegi dello streaming compulsivo, abbiamo chiesto a Fox Life e Rai 2 di raccontarci tutto, ma proprio tutto di queste casalinghe disperate. E sì, abbiamo amato Gabrielle, abbiamo sorriso di Susan e con Susan, di Bree e con Bree, ma siamo state Lynette. Almeno una volta, tutte siamo state Lynette.
Possiamo aver sentito la mancanza degli affetti sul lavoro o combattuto per trovare rifugio dagli affetti nel lavoro, possiamo aver sostenuto i nostri compagni di vita in un’impresa folle, essere state abbandonate e tradite, esserci sentite sopraffatte da una vita che ci chiede troppo, e poi rimboccate le maniche per venirne fuori, sempre. Possiamo esserci sentite brutti anatroccoli tra splendidi cigni – conosciamo tutti un equivalente terreno di Eva Longoria, no? – o spazio vuoto tra le piastrelle, ma a Wisteria Lane non ci siamo mai sentite sole. E di questo basta forse ringraziare Marc Cherry? No, nient’affatto, perché è questa signora qui, è Felicity Huffman ad aver dato fattezze reali a un personaggio rivoluzionario solo in potenza. La stessa Felicity Huffman che negli anni ci ha regalato l’indimenticabile Bree Osbourne di Transamerica o le solide Barb, Leslie e Jeanette di American Crime.
Dove abbiamo sbagliato?
Non ci abbiamo messo molto a cascarci, quindi, e a iniziare a sovrapporre Felicity a Lynette e alle sue donne, e a ciò che di loro sentivamo e sentiamo così nostro. A ciò che ha cementato il mito della donna normale. Abbiamo visto una donna in carne, ossa e – per un po’ – zero botulino conquistare premi e stelle di cemento hollywoodiane a suon di ruoli indimenticabili e talento da vendere. L’abbiamo vista correre, correre e sudare, incurante di cellulite e paparazzi. L’abbiamo vista condividere la comodità delle pantofole, l’agonia dei tacchi alti, le luci dei red carpet e la gioia di Emmy e Golden Globe con lo stesso uomo, William Macy, l’amore di una vita intera. Abbiamo sentito le distanze accorciarsi davanti a un viso normale – non brutto, ma neppure bello – e a un corpo normale, a un matrimonio di trent’anni, a una carriera solida, a un silenzio radio che nel mondo dello spettacolo vuol dire solo una cosa: non c’è nulla di me su cui valga la pena spettegolare.
Poveri illusi, noi. Cosa ci dice di Felicity Huffman lo scandalo dei college, quindi? Che il mito della donna normale in realtà non esiste, semplicemente perché non riusciremmo neppure ad arrivare a una definizione univoca di normalità. Ad eccezione di geni e megalomani, probabilmente tutti noi tenderemmo a definirci persone normali, e anche persone perbene. Se lo scandalo delle ammissioni ai college Usa fosse scoppiato in Italia, però, non avremmo accolto la notizia con grande stupore; anzi, l’abitudine al malcostume e alla corruzione ce lo avrebbe quasi fatto sembrare normale. Eppure una persona normale e perbene non comprerebbe l’ammissione dei figli a un ateneo prestigioso sborsando mazzette per centinaia di migliaia di dollari, giusto?
Facciamo i conti con la realtà.
Forse non ci resta che ammettere che la normalità è un alone inconsistente che aleggia attorno a ciò che crediamo, vogliamo o speriamo ci somigli. Restando invischiata nello scandalo dei college, Felicity Huffman ci toglie il gusto di fare il tifo per una donna dall’aspetto comune, uno dei rari talenti capaci di ricordarci che le storie sugli schermi sono storie nostre. Storie che raccontano di noi come siamo davvero, non come saremmo se la genetica e il caso e la dea bendata non si fossero divertite a disegnarci con Paint su Windows 95.
L’incantesimo si è spezzato. La caduta del mito sarebbe stata certo meno rovinosa se il momento storico, la qualità assoluta di una serie come Desperate Housewives, il suo successo pop e l’inusuale normalità del personaggio non avessero consegnato la figura terribilmente, irresistibilmente umana di Lynette Scavo alla storia recente della tv e alla perenne memoria di tanti poveri millennial. Non sappiamo ancora cosa ne sarà di Felicity Huffman, dello scandalo dei college e di quest’ennesima esibizione di privilegio spudorato, ma una cosa è certa: neppure Shonda Rhimes avrebbe spazzato via tanto abilmente una beniamina della nostra adolescenza.