Quando ero piccolo la festa delle donne, l’8 marzo, mi lasciava interdetto. Parlo di quando ero bambino, una vita fa. Lo stesso tipo di sensazione, scopro, che oggi provano i miei figli più piccoli. La classica domanda che pongono, e che suppongo all’epoca ponessi anche io è: “E la festa dell’uomo quand’è?”. La risposta, immagino allora un po’ meno perentoria di oggi, “Tutto il resto dell’anno” non è abbastanza chiara, quando sei un bambino. Tanto più se sei un bambino cresciuto, suppergiù, in un contesto in cui ti viene spiegato sin da piccolo che su questa terra siamo tutti uguali. Un concetto talmente elementare da non necessitare ulteriori spiegazioni, al punto che diventa davvero incomprensibile, poi, parlare di generi e razze.
Mi spiego, non che io sia cresciuto in uno di quei contesti “gender free” di cui si legge sempre più spesso ora (sempre più spesso non perché la cosa abbia dilagato, ma perché se ne parla sempre più spesso con curiosità, spesso con la stessa curiosità divertita, per dire, di chi racconta faccende bizzarre come il farsi ricoprire il monte di Venere con pietre Swarovski). Semplicemente se a un bambino si dice che siamo tutti uguali, e se soprattutto vive in un contesto in cui quel concetto viene applicato, facile che ci creda e che finisca per pensare che così accade ovunque.
Poi però sono cresciuto, e ho capito meglio la situazione. A fatica. Ho capito che non siamo affatto tutti uguali, e anzi, ho capito che siamo tutti diversi. E fin qui non solo non ho visto alla cosa con fastidio, ma ho pensato che nella diversità fosse appunto il bello dello stare al mondo. Sai che palle essere tutti uguali. Ho però altrettanto capito che l’essere tutti uguali non riguardava tanto l’essere omologati a un comune canone, quanto all’ambire a un posto dove tutti avessero gli stessi diritti e gli stessi doveri, e qui la faccenda si fa davvero tragica.
Lo dico da uomo, sia chiaro, con tutte le variabili che un discorso del genere fatto da un uomo può implicare (e di cui, onestamente, me ne frego abbastanza). Ho così deciso di lavorare, nel mio campo, quello della musica e del linguaggio, per provare non dico a cambiare le cose, sono ambizioso e arrogante ma non così tanto, ma quantomeno a metterci su una pezza colorata. Non son qui a raccontare faccende che semplicemente googolando si possono serenamente trovare. Provare a incidere, personalmente, nel contesto in cui mi muovo mi sembra il minimo che si possa e si debba fare, e vivendo in una casa con quattro donne mi è assai chiaro come di cose da fare ce ne siano davvero tante, tantissime.
Per questo credo che lo spettacolo Donne come noi, visto ieri sera al Teatro Franco Parenti di Milano, scritto da Giulia Minoli e da Emanuela Giordano e diretto da quest’ultima, con Tosca, Giovanna Famulari, Fabia Salvucci, Rita Ferraro, Anna Mallamaci e Maria Chiara Augenti, nato da un progetto di DonnaModerna sia assolutamente da vedere e sostenere. Perché con la classe e la leggerezza che questo manipolo di grandi artiste, trainate da una portentosa Tosca, porta sul palco ci sarà sempre più chiaro e evidente come e quanto spezzare questo meccanismo sessista che incatena e relega la donna in secondo piano non solo sia possibile, ma doveroso. Tratto dall’omonimo libro, che raccoglie le storie di 100 donne che in questo contesto hanno compiuto un miracolo, Donne come noi usa la semplicità delle trame di vita vissuta per spiegare come a volte fare sia più semplice che congetturare. Semplice seppur doloroso, faticoso, a volte addirittura incredibile, ma semplice. Perché le differenze di genere ovviamente ci sono, sono evidenti agli occhi, ma le differenze di trattamento, beh, quelle sono abbattibili solo a colpi di risultati portati con quella naturalezza di cui si parlava sopra. Alternando storie minime ma potentissime a canzoni spesso tratte dal repertorio popolare, di cui Tosca e il suo ensemble è massima rappresentante in Italia, Donne come noi usa la forza della bellezza per scardinare i chiavistelli dell’orrido in cui viviamo. Scienziate, avvocati, semplici donne che hanno messo in piedi iniziative benefiche, sociali, compiuto appunto miracoli, di questo ci parla Donne come noi. E in una platea composta prevalentemente da donne, composta tristemente prevalentemente da donne, agli uomini presenti è chiaro come una delle peculiari differenze da genere da tenere in conto non per fare distinzioni di merito o diritto, ma per farne leva con cui sollevare il mondo, è proprio una forza d’animo, una capacità di problem solving assai più sviluppata (suppongo per lo stesso motivo per cui si sviluppano certe parti del corpo a certi animali, come i piedi palmati alle anatre), demerito nostro, una forza d’animo tale da rendere tutto così naturale anche nel momento in cui ci si ritrovi a affrontare situazioni che di naturale non hanno nulla.
Intendiamoci, non voglio passare per un femminista di ritorno, uno che vuole spiegare qualcosa, uno che si sente in colpa. Sto semplicemente dicendo, e lo dico con la mia voce, quella urticante che dice che un disco non valido “fa cagare” e che per spiegare come un artista avrebbe potuto fare meglio dice “che andrebbe legato alla ruota della tortura”, che Donne come noi, il libro, il progetto di DonnaModerna, lo spettacolo teatrale con Tosca e il suo ensemble, tutto questo va assolutamente assaporato. Anche se sin da piccoli si faticava a capire il perché, oggi, si debba festeggiare la donna e domani no. Anche se oggi ci si ritrova a doverlo spiegare ai propri figli, alle proprie figlie. Ascoltate quelle storie, ascoltate soprattutto la leggerezza con cui vi vengono raccontate su quel palco. Ascoltate le canzoni scelte con cura, eseguite con maestria, regalateci con quelle voci, quella di Tosca, forse la più bella del nostro panorama musicale italiano, e non potrete che convenire con me.
Nel mentre, non sta certo a me fare distinzioni poetiche. Oggi è la festa delle donne, quindi tanti auguri a tutte.