Il finale de Le regole del delitto perfetto 5 ha lanciato un enorme cliffhanger verso la sesta stagione, con una doppia scomparsa e quell’urlo di disperazione di Annalise di fronte all’ennesimo dramma.
ATTENZIONE SPOILER!
Con l’episodio trasmesso il 28 febbraio da ABC negli Stati Uniti – in Italia la programmazione de Le Regole del Delitto Perfetto 5 parte ad aprile su FOX – la quinta stagione si è congedata dal pubblico con l’intenzione di tornare. Anche se ABC non sembra così convinta di volerla rinnovare. Non c’è ancora, infatti, una pronuncia da parte dell’emittente sul futuro della serie: HTGAWM 6 per ora non è stata annunciata, ma evidentemente lo showrunner Pete Nowalk ci crede molto, perché ha dato all’ultimo episodio della quinta stagione una conclusione che non può neanche lontanamente somigliare ad un finale di serie.
I dubbi sul rinnovo di How to Get Away with Murder sono legittimi considerando gli ascolti di quest’ultimo capitolo, visto che la serie ha ottenuto una media dello 0,67 nella fascia demografica 18-49 e 2,84 milioni di spettatori, in calo, rispetto alla quarta stagione, rispettivamente del 29% e del 23%. Nonostante i dati non fossero esaltanti, Nowalk ha comunque deciso di confidare nel rinnovo della sua serie, lasciando il pubblico di fronte ad un finale aperto con la scomparsa di Laurel e suo figlio Christophe nell’episodio 15×15, Please Say No One Else Is Dead. Il tutto dopo aver svelato che ad aver architettato l’omicidio del padre di Nate è stato suo fratello Xavier ma senza la complicità del procuratore Miller, altra vittima incolpevole di questa stagione, la cui innocenza resterà un segreto per volontà di Annalise e Frank che vogliono proteggere Bonnie e Nate dal senso di colpa per averlo ucciso ritenendolo invischiato nella faccenda.
Come ampiamente anticipato dal penultimo episodio che aveva introdotto una svolta con l’apparizione a sorpresa di un nuovo antagonista finora sconosciuto, Le Regole del Delitto Perfetto 5 sembra essersi un po’ avvitato su se stesso: gli sceneggiatori sono ricorsi allo stesso meccanismo usato per la terza stagione, risolvendo il mistero del mandante dell’omicidio di Lahey Senior col ricorso ad un nemico completamente estraneo alla cerchia dei sospettati fino a quel momento.
Come con l’omicidio di Wes, che si scoprì essere ordito dal padre di Laurel per salvare un’operazione finanziaria dal danno d’immagine di una confessione del ragazzo sull’omicidio di Sam Keating, anche stavolta si è preferito individuare il villain di questa stagione calandolo nella trama dall’esterno.
Mai visto prima – se non forse in un episodio della terza stagione in una scena di un pranzo di famiglia dei Castillo – il fratello maggiore di Laurel è diventato il burattinaio fantasma capace di muovere i fili di una storia assurda, in cui pare che ognuno sia pronto ad uccidere per i motivi più svariati, ma principalmente per esaudire le proprie vendette personali, come se l’omicidio efferato sia l’unica soluzione possibile in lotte di potere.
Questo, ad oggi, risulta il principale punto debole di questa serie: tutti uccidono tutti per motivi dalla fondatezza più che discutibile, senza mai valutare soluzioni alternative. Jorge Castillo ha ucciso Wes per evitare che confessasse l’omicidio di Keating e danneggiasse la vendita della sua società Antares in quanto fidanzato di sua figlia, Xavier Castillo ha presumibilmente ucciso sua madre e ne ha “regalato” lo scalpo alla sorella, dopo aver fatto uccidere il padre di Nate per vendetta nei confronti di Annalise reputata responsabile della carcerazione di suo padre, Bonnie ha preferito soffocare il suo fidanzato piuttosto che soccorrerlo dopo il pestaggio di Nate pur di salvare quest’ultimo (che continua a pestare gente a caso dimostrando di non aver imparato la lezione) convincendosi da un semplice indizio che l’uomo sia il mandante dell’omicidio Lahey.
Sono solo tre esempi che dimostrano come sia debole una sceneggiatura in cui gli atti efferati dei protagonisti sono completamente sproporzionati rispetto alle loro motivazioni. La maggior parte dei delitti non potrebbe mai avvenire su quelle basi, perché qualunque persona sana di mente, pur animata da ambizione, avarizia o voglia di rivalsa, non arriverebbe a pensare che l’omicidio sia la soluzione più immediata e sicura ai propri problemi. Dal punto di vista della sceneggiatura, poi, è chiaro che un delitto cruento, e il mistero sul colpevole che quasi sempre ne consegue, va accompagnato da un movente valido, credibile, supportato da una rete di indizi seminati qua e là nella trama e non solo come un semplice fallo di reazione, un dispetto, un gesto di rivalsa.
In una serie che è ambientata in un universo narrativo verosimile – la Philadelphia contemporanea – le motivazioni che reggono le azioni dei protagonisti dovrebbero risultare, se non chiare per evidenti motivi legati al genere giallo/noir, perlomeno fondate, logiche, comprensibili per quanto non condivisibili.
Invece anche stavolta si scopre che tizio ha ucciso caio per vendicarsi di sempronio, come se nessuno rischiasse nulla nell’ammazzare un altro essere umano e la considerasse sempre la via d’uscita più semplice e innocua. A differenza della prima stagione, in cui ad esempio l’omicidio di Sam da cui è partita la catena di delitti susseguente era motivato dalla legittima difesa di un innocente in pericolo di vita, nelle successive ogni omicidio è parso tuttavia evitabile o fondato su moventi deboli, già a partire da quello di Rebecca nella seconda stagione da parte di Bonnie. Una tendenza che è proseguita nelle stagioni successive, insieme a quella di individuare i colpevoli in personaggi rimasti perlopiù offscreen per la stragrande maggioranza del tempo (Jorge e Xavier Castillo non erano quasi mai apparsi prima di diventare i cattivi della situazione), mettendo il pubblico nell’impossibilità di collegarli ai fatti messi in scena.
In ogni giallo che si rispetti la sfida al lettore/spettatore è proprio quella di spingerlo a mettere insieme gli indizi per comporre un puzzle finale in cui tutti i pezzi trovino il loro posto e la scoperta del colpevole sia un percorso progressivo e coinvolgente. Se la tecnica diventa quella di tirare fuori dal cilindro un colpevole mai visto né nominato prima vengono meno i fondamenti di una buona sceneggiatura di genere in favore di una ricerca continua e snervante del colpo di scena a tutti i costi che però lascia il tempo che trova: quale pathos può mai avere una trovata dell’ultimo minuto che sarebbe stata impossibile da ipotizzare da parte del pubblico perché fondata su un personaggio mai visto prima?
Risulta quindi inevitabile leggere questo finale come un tradimento delle aspettative dello spettatore, che se per quindici episodi ha scelto di ragionare su un intreccio stratificato per addivenire ad una verità, merita che i suoi sforzi siano premiati con un disvelamento che non sia semplicemente una sorpresa tout court, scollegata da tutto il resto e inimmaginabile non perché geniale, ma semplicemente perché non supportata dagli elementi forniti fino a quel momento. Non è un caso che si finisca sempre a dover racchiudere negli ultimi 40 minuti del finale eventi precedenti, mostrati nei flashback, che giustifichino l’individuazione del colpevole: in questo modo la trama delittuosa principale risulta realizzata esclusivamente fuori dallo schermo, escludendo chi guarda dalla possibilità di ricostruirla senza l’aiuto di chi decide di fornire la verità sul mistero in un’unica soluzione finale. E dopo 15 episodi, nessuno spettatore, nemmeno il più distratto, se lo merita. Qualora dovesse esserci una sesta stagione, sarebbe meglio che gli sceneggiatori lo tenessero a mente.