In uno dei momenti più significativi del documentario sui Queen Days Of Our Lives possiamo ascoltare le parole di Roger Taylor alternate alla testimonianza di Freddie Mercury nel racconto della registrazione dell’album “News Of The World” (1977). I Queen si trovavano presso gli Wessex Sound Studios di Londra e, negli stessi giorni, i Sex Pistols erano impegnati nella registrazione dell’unico album in studio Never Mind The Bollocks. Freddie Mercury si trovava alla consolle e uno stralunato Sid Vicious fece il suo ingresso e si interfacciò con il frontman con fare provocatorio: «Hey, signor Queen, sei riuscito a portare il balletto alle masse?». Mercury si alzò in piedi e avanzò verso di lui, e rispose: «Facciamo del nostro meglio, caro», ma poi aggiunse: «Simon Ferocious». Il tentativo di storpiare il nome d’arte non piacque a Sid Vicious, al secolo John Simon Ritchie, ma il giovane punk non ebbe il tempo di reagire e si ritrovò afferrato per il colletto e sbattuto sulla porta della sala di regia dallo stesso Freddie. Poco dopo lasciò lo studio.
Days Of Our Lives è il racconto sull’ascesa dei Queen all’Olimpo del Rock raccontato dagli stessi protagonisti, dai manager e da tutti i tecnici che in qualche modo ebbero a che fare con la band. I momenti più intensi sono due: il primo riguarda Brian May che si commuove ricordando che suo padre – che aveva sempre contestato la sua scelta di dedicarsi alla musica – tornò sui suoi passi dopo aver visto l’esibizione in acustico di Love Of My Life. Il secondo riguarda Roger Taylor quando ricorda quel momento in cui una telefonata gli comunicò che il loro frontman aveva smesso di soffrire. I loro occhi hanno visto folle oceaniche, alberghi, strumenti e spartiti, ma quando arrivano le lacrime quella sicurezza che sempre appartiene a una rockstar viene tradita, si riduce a un vuoto emozionale incolmabile.
Il documentario sui Queen Days Of Our Lives andato in onda il 27 febbraio su Rai5 si inserisce nella lunga lista di tributi e memorabilia della band inaugurata dal film Bohemian Rhapsody di Bryan Singer, un biopic che ha riacceso i riflettori su una delle realtà musicali più rivoluzionarie del mondo del rock. Gli stessi membri ne sono consapevoli e lo raccontano a partire dagli anni degli Smile, la band che Freddie Mercury seguiva con tanto entusiasmo e alla quale non mancava di dispensare consigli. Quando nel 1970 Tim Staffel, voce e basso degli Smile, lasciò la formazione, Freddie Mercury li invitò a continuare a suonare e si propose come nuovo frontman.
La capacità di Freddie di “tenere in pugno il pubblico”, come tutti i superstiti amano sottolineare, fu subito il marchio di fabbrica di una band destinata al successo mondiale. I primi tre album – “Queen” (1973), “Queen II” (1974) e “Sheer Heart Attack” (1974) portarono la band a una tournèe che toccò anche il Giappone, ma con un certo fastidio Roger Taylor e Brian May ricordano che in quegli anni la band era ricoperta di debiti tanto da non potersi permettere nemmeno il ricambio della bacchette della batteria. “A Night At The Opera” (1975) doveva funzionare per forza, altrimenti la band avrebbe chiuso bottega. Bohemian Rhapsody fu la prova del 9 e nonostante lo scetticismo dovuto alla lunghezza eccessiva del brano tutto andò per il meglio.
Come ogni famiglia, ogni relazione e ogni rapporto di lavoro, non mancarono i momenti più cupi, soprattutto quando la stampa si focalizzò sulla malattia di Freddie Mercury pur non l’assenza di dichiarazioni ufficiali. Le speculazioni erano infinite e le riviste scandalistiche alludevano all’orientamento sessuale del frontman, dettaglio che veniva considerato la causa dei problemi di salute. Freddie lo dichiarò alla band in un momento di confessione e tutti giurarono che nessuno avrebbe proferito parola con i giornalisti.
Qualche anno prima, tuttavia, i lavori su “Hot Space” (1982) misero duramente alla prova l’equilibrio interno della band. I Musicland Studios di Monaco sorgevano sotto un grande edificio dal quale si erano gettate numerose persone, e nonostante la band ignorasse quei fatti lo stesso Brian May racconta che tutti e quattro si sentivano strani e demotivati. Per la prima volta, poi, le chitarre di May non erano parte dominante degli arrangiamenti come in precedenza, se consideriamo che per “Hot Space” la band registrò una svolta dance-pop che impiegava un ampio uso di sintetizzatori. Non a caso, nonostante la presenza di brani di successo come Under Pressure – in un featuring con David Bowie – la critica fu feroce. Alcune testate parlarono di un tacito capolinea e le trasmissioni televisive decontestualizzarono intenzionalmente le dichiarazioni dei singoli membri, con un Roger Taylor che veniva considerato schifato dall’esito del disco.
Il riscatto arrivò con “The Works” (1984), il disco che tutti definiscono come il ritorno trionfante dei Queen e con ragione, perché si tratta dell’album che contiene Radio Ga Ga, Hammer to Fall e I Want To Break Free, ma la vera svolta della band soprattutto nella dimensione live arrivò l’anno successivo con la partecipazione al Live Aid in Sud Africa. Erano gli anni dell’apartheid e la band si preoccupò che tra il pubblico non vi fossero separazioni in base alla razza. Il regolamento prevedeva che non si superasse una certa soglia di decibel, ma il loro tecnico del suono, di nascosto, alzò i loro volumi. La loro performance entrò nella storia, e non a caso il concerto del Live Aid è stato scelto come scena di chiusura del biopic di Bryan Singer.
Più passavano gli anni, però, più la malattia di Freddie Mercury avanzava e si dimostrava difficile da nascondere. Nel 1986 i Queen abbandonarono la dimensione live e il frontman, un anno dopo, confessò il suo problema al resto della band. Roger Taylor ricorda: «Freddie ci disse che voleva fare musica fino alla fine, senza fermarsi», e la band lo accontentò. La morsa della stampa si faceva sempre più stretta. Taylor, May e Deacon venivano spesso intercettati dai cronisti che chiedevano se fosse vero che il loro frontman avesse contratto l’HIV, ma la risposta era sempre la stessa: «Non è assolutamente vero, sta benissimo. Fatevi gli affari vostri».
Arrivarono, poi, quelle foto rubate che mostravano l’aspetto di Freddie sempre più magro e sempre più provato dal male che lo stava consumando: «C’erano quelle foto che lo ritraevano mentre camminava per strada, o in altre situazioni – racconta Taylor non senza un certo nervosismo – ed era tutto uno schifo». Le voci dell’opinione pubblica e della stampa sul suo stato di salute trovarono nuovo vigore il 18 febbraio del 1990, quando la band si presentò ai Brit Awards per ritirare un premio per il contributo dato alla musica britannica. L’aspetto di Freddie, nonostante un tentativo di smentita operato nel mostrare un test negativo, era sempre più consumato e provato.
Per l’ultimo album, “Innuendo” (1991), Freddie registrò tre tracce vocali, ma era sempre più stanco e affaticato. Un giorno lasciò lo studio dicendo che avrebbero continuato l’indomani, ma non vi fece ritorno. Una broncopolmonite aggravata dall’AIDS lo costrinse a letto e lo portò alla morte. Nel documentario sui Queen Days Of Our Lives leggiamo il dolore negli occhi di Roger Taylor e Brian May, che si sforzano nel raccontare gli ultimi giorni in compagnia del loro amico e compagno di avventure senza lasciarsi tradire dall’emozione.
Fallisce, però, Taylor. Quei giorni lo tormentano ancora e per questo, probabilmente, ha scelto di continuare con la stessa forza di Freddie Mercury e prendere alla lettera il messaggio contenuto nel titolo di The Show Must Go On, il brano contenuto in “Innuendo” che rappresenta il più deliberato testamento sonoro di una delle più grandi rockstar degli anni ’80. Era l’Inghilterra dei Beatles, dei Rolling Stones, dei Sex Pistols ma anche dei Pink Floyd, e i Queen avevano tracciato il loro percorso portando una ventata d’aria fresca al mondo del rock. Lo stesso Michael Jackson fece il tifo per loro quando sentì per la prima volta Another One Bites The Dust, un pezzo decisamente disco che il Re del Pop consigliò di lanciare come singolo. Grazie a Jackson e grazie alle doti compositive del bassista John Deacon i Queen arrivarono al pubblico della black music riuscendo a conquistare il primo posto in classifica per settimane.
Il documentario sui Queen Days Of Our Lives si chiude, simbolicamente, con Freddie Mercury che gioca con il pubblico mentre lo incita a ripetere i suoi vocalizzi. Al termine del siparietto comico il frontman manda tutti al diavolo e tutti esplodono in una sentita risata. Del resto Days Of Our Lives ci insegna che se Freddie Mercury ti manda al diavolo, sei comunque stato spedito a quel paese da Freddie Mercury.