Un membro dell’Academy che ha rivelato il suo voto per gli Oscar 2019, ovviamente rimasto anonimo, ha definito Roma “il più costoso film casalingo mai realizzato”. Definizione brutale, che però non sembra essere condivisa dai più. Al contrario, il film di Alfonso Cuarón, a scorrere i risultati dei precursors, i premi assegnati prima degli Oscar, e ad ascoltare i rumours dentro e fuori Hollywood, pare sempre più il grande favorito della vigilia.
I riconoscimenti non si calcolano più. La galoppata di Roma è partita col Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia – quanti vincitori di Oscar battezzati dal festival diretto da Alberto Barbera in questi ultimi anni! E dopo non si è mai fermata: miglior film agli inglesi Bafta, la segnalazione nella top ten della National Board of Review, premio speciale dell’American Film Institute. E Roma è il film dell’anno per le associazioni dei critici cinematografici di Chicago, Denver, Londra, Los Angeles, New York, Philadelphia, San Francisco. Se poi parliamo della miglior regia, allora è un plebiscito: Cuarón ha vinto tutti i premi, dai Golden Globes ai Bafta ai Dga Awards (il premio del sindacato dei registi).
Il che ha condotto al logico risultato delle 10 nomination agli Oscar 2019, il film più titolato, a pari merito con La Favorita. Sono candidature pesanti, che vanno dal film alla regia alla sceneggiatura con, a sorpresa, quelle per migliore attrice alla non professionista Yalitza Aparicio e per non protagonista a Marina de Tavira. Il film perderà sicuramente molte candidature per strada, ma ascoltando chi se ne intende, come gli informatissimi Scott Feinberg e Todd McCarthy di The Hollywood Reporter, dovrebbe portare a casa le pesantissime statuette per film e regia.
Scontata invece quella per il miglior film straniero agli Oscar 2019. Perché sì, bisogna ricordarlo, Roma è un film messicano, parlato in spagnolo e mixteco, filmato in un rigoroso bianco e nero. Non proprio quanto di più appetibile solitamente a Hollywood. E, soprattutto, come tutti ormai sanno, è un film targato Netflix, che non l’ha prodotto ma ha deciso di distribuirlo. Che è poi la ragione per cui, un anno fa, Thierry Frémaux, delegato generale del festival di Cannes, l’ha rifiutato, in un paese dal botteghino florido come la Francia, nella quale la pressione degli esercenti cinematografici per escluderlo dalla kermesse è stata molto forte. Perché si correva il rischio che un premio importante potesse andare a un film che non sarebbe stato distribuito nei cinema, con grave danno per le sale.
La polemica tra cinema e Netflix sta tenendo banco da almeno un paio d’anni, e Roma di Alfonso Cuarón, se vincesse la statuetta per il miglior film agli Oscar 2019, contribuirebbe a mandarla, forse, definitivamente in soffitta. È il momento giusto per farlo. Anche perché il fulcro su cui si fondano le resistenze delle sale, ossia la tesi secondo cui Netflix ucciderebbe il botteghino, è tutta da dimostrare. Nell’anno in cui Netflix ha raggiunto quasi 140 milioni di abbonati, mettendo in campo una macchina produttiva da 8 miliardi di dollari per serie tv e 80 nuovi film, gli incassi al cinema negli Stati Uniti sono saliti dell’8%. A livello mondiale i dati parlano di un +2,7%. Consultando l’ultimo report dell’Unic, l’Union Internationale des Cinémas, relativo all’Europa, scopriamo che nel vecchio continente, a fronte di paesi in cui gli incassi calano, come la sempre moribonda Italia, ci sono nazioni come Russia, Polonia, Romania che segnano decisi incrementi.
La piattaforma, oltretutto, sta dimostrando di tenere in gran conto il vantaggio che dà, anche in termini di immagine e autorevolezza, il produrre film di dignità cinematografica. Netflix in quest’ultimo anno ha lanciato delle esche che hanno fatto vacillare anche le resistenze dei veri cinefili, quelli più affezionati all’unicità dell’esperienza della visione in sala. Chi se non la piattaforma streaming si sarebbe potuto permettere un’iniziativa d’archeologia cinefila come la riesumazione del leggendario The Other Side of the Wind, capolavoro maledetto e incompiuto di Orson Welles? Solo grazie ai soldi della piattaforma è stato possibile montarlo e distribuirlo. E in autunno arriverà The Irishman, il nuovo film da 140 milioni di dollari con Robert De Niro e Al Pacino. Firmato da Martin Scorsese, che in quanto a cinefilia e amore per la sala non è secondo a nessuno.
Netflix potrebbe contemplare in futuro una strategia che, accanto allo streaming, che resta il suo core business, affianchi la distribuzione in sala per film di un certo tipo. Esattamente quello che è accaduto quest’anno con Roma – in un numero limitato di cinema, circa 600 – o anche, restando a casa nostra, con Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, il film sul caso Cucchi che, a proposito di premi, ha appena incassato la candidatura a miglior film ai David di Donatello.
Netflix e il cinema hanno cominciato a dialogare. Niente lo dimostra di più dell’ingresso della piattaforma tra i soci della Motion Picture Association of America, la lobby di Hollywood, seduta al fianco di Disney, Fox, Paramount, Sony, Universal e Warner Bros. I tempi stanno per cambiare. E per accelerare il cambiamento, Netflix ha pensato bene di investire un sacco di soldi in una campagna Oscar tambureggiante. Ha investito una cifra tra i 25 e 30 milioni di dollari per un film costato 15, comprensiva anche dell’omaggio ai giurati dell’Academy di un lussuoso volume fotografico da 175 dollari. E soprattutto ha assoldato Lisa Taback, la più grande stratega sulla piazza, cresciuta alla disinvolta scuola di Harvey Weinstein, capace di far vincere la statuetta più ambita a Chicago, Il discorso del re, The Artist, Spotlight. E non stiamo parlando di una consulenza esterna: Netflix, che ama fare le cose in grande e andare sul sicuro, l’ha direttamente assunta, in sostanza inglobando la sua agenzia di comunicazione. Grazie anche a lei Alfonso Cuaròn probabilmente alzerà nella sera del 24 febbraio l’Oscar per il miglior film, certo pagato a caro prezzo. E a quel punto potremo dire che davvero si sarà aperta una nuova epoca.