I 79 anni di Fabrizio De André, probabilmente, sono un caso unico in cui tutti coloro che lo amano non sperano in un suo ritorno. Tutti, anche gli italiani che lo conoscono poco, sanno e sentono che Faber ha dato tantissimo e che il suo messaggio è talmente forte da non consumarsi nemmeno dopo l’usura che colpisce un vinile. Romantico e struggente in Amore che vieni, amore che vai, provocatorio e scanzonato ne Il Gorilla, grottesco e appassionato ne La ballata dell’amore cieco e spirituale, tanto spirituale, come in tutto ciò che accade ne “La buona novella” (1970).
Sì, perché tutto ciò che concerne il mondo che Fabrizio De André ha tradotto in musica, è d’uopo sintetizzarlo nelle parole “anarchia”, “rivoluzione”, “poesia”, “cantautorato” e “ultimi”. Faber era poesia, cantautorato, rivoluzione in poesia e produzione musicale che raccontava gli ultimi con il suo cantautorato. Il sognatore maledetto di Genova non faceva parte della canzone italiana. La sua musica era una vera e propria “canzone di De André”, ma in pochi ricordano la sua forte dimensione spirituale. Egli stesso, nella sua anarchia emozionale, ricorreva spesso a Dio nei suoi testi, tanto da ottenere la considerazione anche da certi uomini della Chiesa o da certi esegeti della Bibbia, che in Faber hanno trovato l’anello di congiunzione tra la fruizione e l’interpretazione delle Sacre Scritture.
Lo ha ricordato Avvenire, sottolineando quanto fosse umanoide il Cristo che Faber raccontava ne “La buona novella”, quanto fosse inumano ucciderlo e quanto fosse rivoluzionario il suo ruolo. I 79 anni di Fabrizio De André sono anche quel Gesù che per il cantautore genovese era nudo da ogni teologia o trascendenza, perché di lui contemplava la carne e il coraggio. E Dio? Il Dio di Faber era differente, perché egli stesso cercava una vicinanza con qualcosa di superiore che chiamava “Dio” per pura convenzione, per comodità. Lo riportava Paolo Ghezzi nel suo libro Il Vangelo secondo De André:
Quando parlo di Dio lo faccio perché è una parola comoda, da tutti comprensibile, ma in effetti mi rivolgo al Grande Spirito in cui si ricongiungono tutti i minuscoli frammenti di spiritualità dell’universo. Qualcosa che dove siamo in eternità è un susseguirsi infinito di meraviglie e che in questa breve parentesi di penombra vive l’avventura di un figlio che si sacrifica per gli altri senza una ragione precisa.
Le sue parole, in breve, ci fanno intendere che tra una preghiera tradotta in musica e una ballata, De André cercava di allinearsi a un qualche Spirito Elevato che non era quello iconografico e cristiano, non quello di un Vaticano né dei Mormoni, bensì un qualcosa che era al di là di ogni rappresentazione umana. Il suo Spirito Elevato – così lo chiamava – era una pangea che riunificava ogni piccola dimensione spirituale dell’umano, per offrire un luogo di culto non sottomesso alla volontà dell’uomo. Come il suo essere Principe, anche il suo Dio era libero.
I 79 anni di Fabrizio De André non sono che un numero impresso su un calendario, perché se da una parte il Faber ha ridimensionato la canzone d’autore, dall’altra ha gettato le basi per un nuovo indirizzo della spiritualità.