Era già tutto scritto nella sua canzone, riassunto in un “Ti senti solo perché non sei come appari”. Ma non lo abbiamo capito. Di Ultimo non ci abbiamo mai capito niente, sempre troppo presi dalla velocità di questo mondo che ci sbatte in faccia solo numeri, biglietti venduti, classifiche, interviste di due minuti scarsi con quelle tre domande banali ed inutili per tutti, per me giornalista, per te artista.
Pagelle e voti, giudizi e pregiudizi, recensioni superficiali e attacchi gratuiti, sia da un lato che dall’altro. A Domenica In si è incazzata persino Anna Tatangelo, che ho sempre visto come un’artista calma e pacata. Ha ricordato ai giornalisti l’importanza di non giudicare un disco dopo un solo ascolto: l’artista ci lavora anni e gli addetti ai lavori non possono avere la presunzione di aver capito tutto dopo un paio di ascolti distratti.
Ultimo, a modo suo, ha detto più o meno la stessa cosa, con un po’ meno di eleganza perché a Roma se parla come se magna.
Il Volo rimprovera tutta la categoria per gli insulti ricevuti in sala stampa durante l’esibizione e durante l’annuncio del terzo posto, Nesli racconta i cori di cui è stato vittima quando era in gara al Festival con Alice Paba. Sono i cantanti stessi a chiederci maggiore attenzione, a chiederci di fermarci un attimo in più e a riflettere. Riflettere prima di dare un 2 in una “pagella” sanremese, riflettere prima di urlare di tutto contro un artista, reo solo di voler inseguire il suo sogno nella musica, che sia nel pop o nel pop-lirico. Siamo persone, prima di essere cantanti o giornalisti, e ce ne dimentichiamo a volte.
Ho passato due giorni al telefono a spiegare cosa fosse successo in sala stampa dopo la finale di Sanremo, a spiegare perché – nonostante tutto – io Ultimo lo perdono. Mi porto dietro un senso di colpa: quello di non essermi alzata dal mio posto, durante la conferenza stampa, per andare a dirgli: “Va tutto bene”. Niccolò in quel momento aveva bisogno di sentirsi sicuro, aveva bisogno di un abbraccio, aveva bisogno di capire cosa stesse succedendo. E sai cosa stava succedendo, Niccolò? Esattamente niente. Perché quei palazzetti sold out e quel concerto allo Stadio Olimpico che ha già venduto 30.000 biglietti (2 dei quali sono miei), non te li toglierà mai nessuno.
Parlare di boria e di spocchia è troppo facile oggi. Stiamo sbagliando di nuovo perché ci stiamo fermando al flash che ci viene sparato negli occhi, senza essere minimamente interessati a vedere cosa c’è dietro. Dietro lo scazzo di Ultimo c’è un Niccolò insicuro e fragile, che nel tritacarne di Sanremo ci è arrivato già emotivamente a terra. Niccolò è uno di quelli che dopo l’esibizione, ma anche prima, con il suo smartphone si cerca su Google e si mette a leggere tutti gli articoli che lo riguardano. Forse lo fa addirittura dal giorno dei famosi ascolti in Rai, quando sulla maggior parte delle testate sono apparse le pagelle, voti alle canzoni ascoltate solo una volta, e 24 di seguito. Lì si cerca sempre e solo la canzone impegnata, come se a Sanremo si dovesse necessariamente parlare di politica o dei problemi del mondo.
E Niccolò ha iniziato a soffrirne lì.
Da un lato veniva dato per vincitore sicuro, dall’altro c’erano le critiche alla canzone non troppo “impegnata”; al centro di questo dualismo Niccolò che a Sanremo voleva solo cantare una sua canzone, scritta con il cuore.
Pregiudizi e aspettative, pressioni esterne esercitate da chi si aspetta sempre qualcosa in più, uno come Niccolò lo mettono KO. Ed è quello che è successo a Sanremo. Il vincitore annunciato che non vince, delude, e Niccolò ha sentito su di sé la pressione di aver deluso. Se stesso, prima di tutto, ma anche gli altri. La sua vittoria a Sanremo era così scontata e sicura che il mancato arrivo del premio lo ha destabilizzato, lo ha portato a chiudersi a riccio e a pungere chiunque si avvicinasse.
Niccolò ha sbagliato. Ha sbagliato i modi. Gli stessi concetti, espressi in modo diverso, avrebbero sortito tutt’altro effetto. Ma ha ragione perché:
1. il vincitore annunciato non vince mai, i pronostici di stampa e bookmakers portano sfiga, è vero!
2. tante delle persone accreditate, hanno solo quella settimana per sentirsi grandi esperti di musica. In sala stampa non ci sono solo giornalisti musicali e critici che tutto l’anno si occupano di musica ma anche coloro che svolgono le professioni più varie e che vanno a Sanremo “in vacanza”, prendendo una settimana di ferie. C’è chi scambia Motta per Calcutta e ne è talmente certo da fargli una domanda sulla canzone che ha scritto per Elisa, c’è chi va a Sanremo solo per consegnare regali e dolcetti ai cantanti, in conferenza stampa; c’è chi chiede informazioni sui nomi o sul percorso di artisti che prima di quel momento non ha mai visto né sentito; c’è anche chi insulta gratuitamente gli artisti in gara. Il caso de Il Volo è scoppiato ma anche Ultimo qualche insulto in sala stampa se l’è preso. Selezione all’ingresso, si risolve così la denigrante questione che ha messo in discussione un intero ordine.
Niccolò ha sbagliato, e non ci piove, ma Ultimo si è affidato ad uno staff competente che avrebbe dovuto evitare che tutto questo si verificasse. A Sanremo la canzone conta per il 50%, un po’ come il televoto, l’altro 50% è influenzato dalla gestione dell’artista, il cui compito dovrebbe essere solo quello di salire sul palco al meglio delle sue possibilità. Non punto il dito contro la conferenza stampa annullata per le prove (anche se avrebbe potuto recuperarla in un altro momento), gestire un artista, gestirlo a Sanremo, significa molto altro.
LA LODE
Avevo una media altissima e il mio voto di partenza per laurearmi era pari 108/110. Alla tesi venivano assegnati 5 punti e la mia era un mattone assurdo, approfondito, sperimentale (la tesi sperimentale teoricamente avrebbe dovuto avere più valore di una tesi compilativa). Il mio relatore mi aveva già detto che mi avrebbe dato 5 punti, orgoglioso del lavoro che avevo svolto completamente in modo autonomo, ma per la lode avevo bisogno dell’unanimità della commissione.
In commissione c’era lei, la stronza che pensa di aver capito tutto di tutti, alla quale se tornassi indietro righerei la fiancata della macchina con una chiave bella spessa. Lei, la stronza, con la quale avevo fatto un esame prendendo anche un voto alto (28) si è fermamente opposta alla mia lode, nonostante un punteggio complessivo di 113 punti su 110.
Se avessi studiato in un altro ateneo, con 113 punti, la lode l’avrei avuta d’ufficio. Ma non nel mio. Ho pianto e ho urlato contro tutti davanti a persone che mi dicevano: “Ma hai preso 110, beata te, è comunque il massimo”, intorno a me laureati con 90/95/100, che il mio 110 lo avrebbero voluto anche senza lode. Ma non io, io quella lode la volevo, perché la meritavo. Certo, la meritavano anche gli altri, ma la meritavo anche io. Ci avevo creduto perché “Con 113 punti, ovvio che ti danno la lode”, mi dicevano tutti, e alla possibilità di non prenderla per colpa di una sola persona non ci avevo mai pensato.
Non ho mangiato per due giorni. Avevo una festa in programma, che non ho mai finito di organizzare. Non c’era niente da festeggiare per me, avevo fallito. Con 110, ma avevo fallito lo stesso secondo i miei criteri di valutazione; che non era così l’ho capito dopo.
Non ho fatto foto neanche per la cornice di mamma, figuratevi se avrei fatto foto per la copertina di Sorrisi e Canzoni!
Dopo un po’ il dolore passa. L’amaro in bocca resta. Ma resta anche la consapevolezza che quella lode, quel premio, nella vita non contano proprio niente.