L’ascolto del festival, fin qui, è stato un po’ deludente. Si dice che una canzone bisogna risentirla più volte per capirla, ma il fatto è che, se non ti emoziona già le prime volte, la puoi ascoltare mille volte e continuerà a non emozionarti. Con la musica, come davanti alle piccole e grandi opere d’arte, il colpo di fulmine arriva e basta, la riflessione e posteriori non c’entra. Puoi applicarti a cercar di capire perché ti scivola addosso e non ti tocca ma non serve neanche questo. È come mettersi davanti ad una persona e decidere di innamorarsi: Non funziona. Puoi conoscerla meglio. E col tempo, grazie all’approfondimento, puoi apprezzarne degli aspetti. Ma l’innamoramento è un’altra cosa.
Date le premesse, non viene voglia di riascoltare tutte le canzoni daccapo. E poiché non mi interessa neanche l’indagine sociologica, né ho la curiosità di sapere chi vincerà, cosa andrà in radio o in classifica, sono un po’ perplessa sui prossimi giorni. A parte sporadici casi mi è sembrato di sentire una mancanza di personalità nelle canzoni. Brani in generale poco ispirati e mi chiedo se la difficoltà a identificare una chiara poetica dipenda dal fatto che a scriverla sia spesso un “team” di autori. Peraltro, se non sei in una band dove la collaborazione è giustamente inevitabile, come si fa a scrivere con altre quattro-cinque persone? A me non è mai successo e mi riesce difficile pensare all’elaborazione di una canzone via Skype o tutti intorno a un tavolo, tipo riunione di condominio. O con un processo di redazione e modifica simile a quello di una legge e delle correlate navette parlamentari. Sarà un caso, ma le canzoni firmate da un “team” di autori – fra queste i brani cantati da Il volo (5 autori), Achille Lauro (4 autori), Arisa (4 autori), Renga (5 autori) e Paola Turci (4 autori) – risultano poco immediate e un po’ involute. Tanto di cappello – per contro – a Ultimo, un ragazzo di 23 anni che presenta un brano scritto tutto da solo, così come Motta, che guarda caso – piaccia o meno il genere – risulta comunque chiaro e incisivo, o Mahmood, autore di musica e testo della sua canzone, coadiuvato da un produttore.
Canzoni che hanno tanti “padri”, quindi, espressione di un “sentire” collettivo, più che di un’ispirazione personale. Costruite, come dalla macchina infernale di George Orwell. Tanti padri e poche madri, totalmente in linea con la direzione maschile di un festival, tanto che nella prima puntata per vedere una delle poche artiste femminili, Loredana Bertè, abbiamo dovuto aspettare un’ora di balletti maschili, canzoni maschili, duetti maschili, terzetti maschili. Ma questo è un altro capitolo, che temo, non finirà mai.
Punto di vista evidentemente condivisibile. Si perde la spontaneità…quindi la verità!