Il corriere – The Mule, il ritorno di Clint Eastwood (recensione)

Tornato anche a recitare, e Ispirandosi a una storia vera, Eastwood diventa Earl Stone, un ottuagenario corriere della droga dei cartelli messicani. Un film in tono minore, che ricapitola i grandi temi del suo cinema. Dal 7 febbraio al cinema.

Il corriere – The Mule

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Persino i Cahiers du Cinéma hanno dedicato a Clint Eastwood e a Il Corriere – The Mule la copertina dell’ultimo numero della rivista. Segno che l’arrivo dell’ultimo film dell’89enne attore e regista (qui alla sua 37esima regia) costituisce un avvenimento. Anche perché Eastwood ha scelto di tornare davanti alla macchina da presa, a undici anni da Gran Torino e a sette da Di nuovo in gioco, in cui era apparso solo perché a dirigere il film era un suo suo storico collaboratore, Robert Lorenz.

Lo spunto di partenza è un articolo del New York Times di Sam Dolnick, The Sinaloa cartels’ 90-Year-Old Drug Mule, poi tradotto in una sceneggiatura di Nick Schenk, che racconta la bizzarra storia vera di Leo Sharp, ex veterano di guerra e insospettabile corriere della droga ottuagenario dei cartelli messicani.

Che in Il Corriere – The Mule si trasforma nell’Earl Stone di Clint Eastwood, ex floricultore – specializzato nella coltivazione dell’emerocallide, il fiore che vive un solo giorno – messo in ginocchio dalla concorrenza del commercio on line. Earl mette a frutto l’unico patrimonio che gli resta, essere un maschio bianco anziano che non ha mai preso una contravvenzione in vita sua. Il che lo rende un perfetto e insospettabile corriere della droga, che trasporta tranquillamente in quantitativi sempre più ingenti sul suo furgone.

Earl Stone condivide molti tratti fondamentali con altri personaggi del tardo Eastwood, in particolare il Walter Kowalski di Gran Torino, entrambi veterani di guerra, e soprattutto padri e mariti assenti. Earl ha preferito per tutta la vita occuparsi del suo lavoro e della soddisfazione narcisista di essere sotto i riflettori, trascurando gli affetti, mancando persino al matrimonio della figlia (interpretata dalla sua vera figlia, Alison Eastwood), che non glielo ha mai perdonato.

Si percepisce, nel modo in cui Earl prende questo nuovo lavoro, una sorta di anarchica trascuratezza verso tutto ciò che gli ruota intorno. Non si pone mai questioni morali rispetto al discutibile tipo di attività intrapresa, si comporta affabilmente con i trafficanti, cerca più che altro, di ricavare il massimo piacere possibile dalla situazione. A un certo punto, vista la sua straordinaria efficienza, viene persino invitato dal boss del cartello (Andy Garcia), che lo tratta affettuosamente, quasi con dolcezza.

Il Corriere – The Mule scorre così, tra incongruenze ed eccessive leggerezze – il modo in cui vengono rappresentati i narcotrafficanti è inverosimile – con un ritmo fin troppo disteso, le divagazioni picaresche, l’attenzione all’America profonda, le marche “destrorse” che Eastwood pare inserire ironicamente a uso dei suoi detrattori – epiteti come “lesbica” o “negro”.

Al fondo il racconto ripercorre, seppure in forma più diluita e inerte, i temi caratteristici del suo cinema: responsabilità, colpa, disgregazione della famiglia. Nell’ultima mezz’ora, il film trova una matrice più seria: nel confronto con la ex moglie malata terminale (Dianne Wiest), in quello col giovane agente delle Dea sulle sue tracce (Bradley Cooper), che rischia di commettere i suoi stessi errori.

Più di tutto, Il Corriere – The Mule finisce per essere un film sulla vecchiaia. Eastwood mescola le carte, ci depista facendoci vedere il quasi novantenne ancora capace di destreggiarsi con giovani donne. In realtà è della vecchiaia che vuole parlare, ritratta senza infingimenti nel corpo ormai anziano, dello scorrere inesorabile del tempo, “l’unica cosa che non si può comprare”. Il tempo reso dalla metafora dei bellissimi fiori che vivono un solo giorno, cui ha dedicato l’intera esistenza in un estenuante e fallimentare lavoro di manutenzione di quell’unica cosa preziosa che non può che sfuggirci.