Dopo 7 stagioni il finale di Scandal ha lasciato l’amaro in bocca a molti telespettatori storici del political drama: Shonda Rhimes ha scritto un episodio che avrebbe dovuto essere epico e invece si è limitato a risolvere la questione posta sul piatto nella penultima puntata in modo piuttosto sbrigativo, sebbene non sia mancata qualche nota piacevole.
Il legal thriller fantapolitico di ABC si è concluso negli Stati Uniti lo scorso 19 aprile (dal 24 aprile l’ultima stagione è in onda in Italia su FoxLife, ogni martedì alle 22.00) con la risoluzione dell’annosa questione B6-13: la fantomatica agenzia governativa segreta, braccio operativo indipendente della CIA, che ha dominato le amministrazioni americane negli ultimi 30 anni è stata smascherata dalla decisione dei “gladiatori” di Olivia Pope di testimoniare di fronte al Senato la sua esistenza, i crimini che ha commesso attraverso i suoi agenti e i suoi Capi (Comando) e le distorsioni che ha arrecato al sistema democratico statunitense.
A fare le spese di questa operazione-verità attesa da molti anni è stato però un solo agnello sacrificale, il povero Jake, serial killer sentimentale innamorato della protagonista e pronto per lei ad assumersi le colpe di tutti finendo i suoi giorni in una prigione federale. Né Olivia che col suo mandato ha commissionato l’omicidio di un capo di Stato e di sua nipote, né Quinn e Huck che hanno torturato e ucciso con le loro mani in quanto spie dell’organizzazione, né i presidenti che hanno ammesso di conoscerne l’esistenza, né tantomeno la mente e il capo operativo del B6-13 Eli Pope hanno pagato lo scotto delle loro azioni. Il tutto si è risolto con l’individuazione di un singolo responsabile, senza un processo che chiamasse in causa tutti coloro che a vario titolo avevano fatto parte dell’agenzia e senza che l’opinione pubblica insorgesse per essere stata raggirata e manipolata. Per non parlare dell’assassinio rimasto impunito di David Rosen, il procuratore generale alla guida del caso fatto fuori da Cyrus che per la prima volta si sporca personalmente le mani piombando poi in una crisi di coscienza. Scandal ha sacrificato solo i pesci piccoli sull’altare dell’economia della trama.
Non è necessario essere persone di legge per capire che il modo in cui è stato trattato lo scandalo B6-13 non ha fondamenti di verosimiglianza, che manca di qualsiasi nesso logico e che finisce per risultare surreale. In sette stagioni di Scandal sono saltate presidenze, sono scoppiate rivolte della pubblica opinione e sono morti uomini di stato per molto meno. Nel giro di quaranta minuti Shonda Rhimes ha affrontato un argomento, quello dei conglomerati di potere che minano le basi della democrazia rappresentativa e sovvertono le regole costituzionali, che avrebbe potuto essere il tema dell’intera stagione e che andava approfondito in modo molto più concreto e credibile.
Al di là del mero livello fattuale che giuridicamente fa acqua da tutte le parti, con la messa in scena del più grande scandalo della storia americana risolto senza impeachment per i presidenti, senza indagini e senza processi se non quello a Jake, con una semplice audizione al Senato che insabbia tutte le responsabilità dei personaggi coinvolti, anche il livello simbolico non è messo meglio. I buoni e i cattivi in Scandal non sono mai stati su fronti opposti, bene e male sono sempre stati compresenti in tutti i personaggi e i cambi di fronte e di alleanze hanno portato negli anni potenziali eroi a diventare assassini assetati di potere. Non c’è morale nei protagonisti di Scandal, o meglio esiste a fasi alterne. Nell’ultimo episodio, Olivia sembra recuperare la propria, richiamando tutti i simboli (i cappelli bianchi, i gladiatori, lo “stare alla luce del sole”) che aveva perso per strada nella sua corsa per il dominio della Casa Bianca. Ma è un rinsavimento posticcio e tardivo, che non cancella quanto fatto in passato e per questo poco credibile. Come insoddisfacenti sono le sorti di Rowan e Cyrus: il primo, anziché sacrificarsi per entrambi i suoi “figli” Jake e Liv consegnandosi come unico responsabile dei crimini del B6-13 preferisce farla franca e consegnare Ballard, mentre il secondo viene lasciato libero di affrontare la sua vecchiaia (e i suoi rimorsi di coscienza) con delle semplici dimissioni dalla vicepresidenza.
Il finale si conclude con una potente immagine di due bambine nere che attraversano le sale della National Portrait Gallery e si fermano ad ammirare un ritratto di Olivia, stupite nell’ammirare una donna di colore che (evidentemente, in qualche modo non meglio specificato) è arrivata a governare la Casa Bianca. Qui viene lasciata al pubblico la libera interpretazione di quella che è l’eredità di Olivia Pope: potenzialmente, nell’ideale futuro dell’universo narrativo, la Pope è diventata presidente degli Stati Uniti, o in qualche modo ha meritato di essere nella galleria dei Presidenti per i suoi meriti alla Casa Bianca. La Pope come una sorta di Obama in gonnella? Una Michelle pronta a candidarsi nel 2020? O diventata presidente in un imprecisato futuro nonostante tutti gli scandali in cui è stata coinvolta e le sue ammissioni sul B6-13? Quella scena sembra essere un richiamo alle immagini apparse in rete di una bambina afroamericana che guarda il ritratto di Michelle Obama, anche se a sentire l’attrice Katie Lowes pare che la sceneggiatura sia stata scritta prima che le foto arrivassero in rete, qualche settimana fa. La Rhimes ha detto di aver volutamente lasciato la scena finale aperta all’interpretazione del pubblico (piccola chicca, una delle ragazze adoranti di fronte al quadro della Pope è Harper, una delle sue tre figlie, e la canzone Future Sunny Days che accompagna la scena è un inedito che Stevie Wonder ha scritto apposta per la serie).
Shonda Rhimes ha voluto imprimere un significato politico alla conclusione della saga, influenzata da quanto accaduto negli Stati Uniti dopo la sconfitta della Clinton e la vittoria di Trump. Mettere in scena la prima presidenza femminile americana con Mellie Grant è stata la risposta della Rhimes all’inaspettata vittoria del repubblicano outsider su cui nessuno avrebbe scommesso. La Rhimes spiegato che “la politica in America ha preso un una svolta totalmente diversa rispetto a quella che avremmo pensato, quindi la politica dello show doveva cambiare. Non abbiamo cercato di raccontare la storia di quello che stava realmente accadendo. Quindi, questo ha cambiato il modo in cui sarebbe finita la nostra serie“.
Quel che sembra certo è che la serie con protagonista Kerry Washington è finita per sempre: nonostante le storyline lasciate sospese (“Farò qualsiasi cosa vorrò” dice la Pope, senza che si capisca quale sarà il suo futuro, né professionale né sentimentale), la creatrice della serie ha confermato che non ci sono piani per un revival nell’immediato futuro. Durante una lettura della sceneggiatura del finale della serie (incluse scene che non sono finite nel montaggio definitivo come la vendetta di Huck su Cyrus per la morte di Rosen) da parte dei membri del cast al El Capitan Theatre di Hollywood giovedì sera, Shonda Rhimes ha dichiarato: “Scandal è finito. Amo tutti e lavorerei di nuovo con tutti prima di subito, ma Scandal è finito“. Tony Goldwyn, che ha interpretato il presidente Fitzgerald Grant III, le ha fatto eco: “Voglio dire, chissà… ma penso che sia finita. Ed è finita magnificamente. È finita“, ha detto l’attore a Variety. La protagonista Kerry Washington ha ringraziato il pubblico di Scandal per averla resa la prima donna afro-americana protagonista di una serie tv nell’arco di 40 anni: “Sappiamo tutti come funziona. Se Scandal non fosse stato un successo, sarebbero passati altri 40 anni. Complimenti al pubblico, perché ha fatto spazio ad altri tipi di protagonisti“.
Indubbiamente Scandal ha avuto questi ed altri meriti: ha mostrato al pubblico le logiche che governano una campagna elettorale, gli strumenti utilizzati per manipolare l’opinione pubblica con la comunicazione politica, ha affrontato con episodi magistrali i temi della violenza delle autorità di pubblica sicurezza contro le minoranze di colore, della discriminazione contro le donne, del controllo delle armi (simbolica la scelta di concludere la serie con la firma di una legge in merito, dopo le recenti stragi da arma da fuoco che hanno riaperto il dibattito nel Paese). Ha fornito un ritratto del potere che visto nel suo complesso risulta surreale e più vicino al fantasy che alla verità, eppure con importanti appigli nella realtà grazie all’ancoraggio ad alcuni temi spesso ignorati dalle serie di intrattenimento di prima serata. Peccato per la deriva kafkiana delle ultime quattro stagioni, che ha reso più che inverosimile gran parte della serie fino al culmine del finale, che pure merita di essere visto.