La7 ha scelto di trasmettere stasera in tv alle 23.00, la sera della vigilia di Natale, L’appartamento di Billy Wilder, che se non è il più bel film della storia del cinema, poco ci manca. È comprensibile la programmazione durante le festività, dato che il film si svolge esattamente a cavallo tra Natale e Capodanno. Eppure, difficilmente si potrebbe definire L’appartamento una pellicola di Natale, coi buoni sentimenti e gli annessi e connessi. Come ha fatto per tutta la sua inimitabile carriera, anche stavolta Billy Wilder ribalta i luoghi comuni. E sceglie il clima delle feste per ambientarvi una commedia amarissima che parla senza giri di parole del potere del denaro e delle forme di prostituzione cui siamo disposti ad abbassarci per ottenere quello che pensiamo di volere.
Come dice l’addetta all’ascensore Fran Kubelik (Shirley MacLaine) all’impiegato C.C. Baxter (Jack Lemmon), il mondo si divide in due categorie. “C’è gente che piglia e gente che è presa”: da un lato i “piglioni”, che approfittano del proprio privilegio, dall’altra i soccombenti, “che anche sapendo di essere presi, non possono farci nulla”. L’unico modo per sottrarsi a questo gioco umiliante, come spiega il dottor Dreyfuss (Jack Kruschen) al suo vicino di casa Baxter, è diventare mensch, un “essere umano” (usa volutamente il tedesco l’austriaco Wilder per spiegare un concetto talmente sentito da aver bisogno della lingua madre).
E non è facile diventare mensch nel luogo in cui lavora Baxter, uomo-massa sperduto in uno spazio angosciosamente sconfinato, una lunghissima teoria di scrivanie e individui anonimi incastrati nella macchina gerarchizzata di una grande compagnia di assicurazioni. “Acri di scrivanie di acciaio grigio, archivi di acciaio grigio e facce di acciaio grigio sotto una luce indiretta”, così è descritto l’ufficio nella sceneggiatura. E c’è, nell’impostazione visiva della scenografia (il puntualissimo lavoro di Alexandre Trauner ed Edward G. Boyle, premiato con l’Oscar), la citazione esplicita de La folla di King Vidor, tra i primi film capaci di raccontare, alla fine degli anni Venti, che cosa stesse diventando la vita nelle metropoli.
In azienda tutti cercano di lucrare sul proprio ruolo, il dirigente si fa la scappatella con la centralinista, l’impiegato briga per sfilare la promozione al vicino di scrivania. C.C. Baxter in questo ambiente di squali ha trovato un modo per distinguersi, mettendo a disposizione il suo tranquillo appartamento di scapolo ai dirigenti a caccia di avventure extraconiugali. Fino a prendere all’amo il capo del personale Sheldrake (Fred MacMurray, in un ruolo atroce che lo spaventava molto, dato che in quegli anni stava diventando un beniamino dei film Disney), che è in grado di fargli fare un consistente salto di carriera. Solo che la merce di scambio, stavolta, è Fran, che il cinico Sheldrake considera poco più di un’avventura, mentre Baxter ne è silenziosamente innamorato. Cosà sceglierà tra il successo e i sentimenti?
Wilder ebbe l’idea de L’appartamento pensando a Breve incontro di David Lean, la storia di un uomo che ha una relazione con una donna sposata, che incontra nella casa di un suo amico. “Che tipo d’uomo – si chiese Wilder – è quello che si infila nel letto ancora caldo dei due amanti? Ecco una storia interessante”. La suggestione di partenza si trasforma nella sceneggiatura di ferro imbastita da Wilder insieme al fedele I.A.L. Diamond in una commedia di irripetibile equilibrio comico-drammatico, nella quale – il gusto del rischio proprio del regista – si ride per gag divertentissime (gli spaghetti scolati con la racchetta da tennis, Lemmon sconsolato mentre guarda la tv), incastonate in una storia che parla di tradimento, arrivismo e sesso a poco prezzo, condita persino da un tentativo di suicidio. Un dramma da camera, stretto in spazi angusti e mortiferi (esaltati dalla fotografia in bianco e nero di Joseph LaShelle, decisamente troppo cupa per un film brillante), che attraverso uno sguardo livido ma profondamente partecipe si trasforma in una commedia dolceamara, la quale proprio in virtù della commistione di toni suona assolutamente verosimile.
Si ride dall’inizio alla fine con L’appartamento. Ma si ride verde, perché Wilder inocula in ogni battuta un retrogusto sgradevole, obbligando il pubblico a interrogarsi sul perché si stia divertendo con una vicenda che mostra comportamenti umani così gretti. Ma Wilder non lo fa né per giudicare moralisticamente i personaggi, né per additare l’ipocrisia degli spettatori. Perché a ogni momento si percepisce benissimo che il più triste di tutti, come scrisse una volta Franco La Polla, è proprio lui, che fa di tutto per salvare Fran e C.C. Baxter da quel mondaccio che li sta risucchiando. Per questo regala loro un lieto fine che è romantico proprio perché non ha nulla di esplicito. Un lieto fine senza baci, come aveva insegnato a Wilder il suo maestro Ernst Lubitsch: se una cosa è davvero importante, se ci credi davvero, non spiattellarla mai. Alludi soltanto.
L’appartamento (1960), di Billy Wilder, con Jack Lemmon, Shirley MacLaine, Fred MacMurray, Ray Walston, stasera in tv su La7, ore 23.00.
Capisco che ci sono buoni film e possono essere paragonati https://www.cb01.vip/ a questi? come pensi cosa andrà meglio?