Caccia al tesoro è il sessantesimo film diretto da Carlo Vanzina, sempre insieme al fratello sceneggiatore Enrico. E se negli euforici anni Ottanta avevano eletto Milano a luogo ideale in cui ambientare il racconto dell’Italia del benessere, adesso, dopo un decennio di crisi che ha messo in ginocchio il paese, la location diventa Napoli, sempiterna capitale dell’arte di arrangiarsi. E per la seconda volta consecutiva, dopo Non si ruba a casa dei ladri, la storia s’incentra sul miraggio del colpo grosso, quasi a dichiarare la voglia miracolistica di qualcosa che, in un solo istante, possa far svoltare l’esistenza.
Ed è letteralmente un miracolo quello che chiede a san Gennaro l’attore scalcinato Domenico (Vincenzo Salemme): una grossa somma che serve alla cognata Rosetta (Serena Rossi), per l’operazione al cuore del figlio in America. Scambiando la voce d’un posteggiatore abusivo per la volontà del santo, i due credono di avere il permesso di rubare un gioiello del tesoro di san Gennaro. Alla banda improvvisata s’aggiungono lo spiantato cronico Ferdinando (Carlo Buccirosso) e due scalcinati ladri romani, Cesare (Max Tortora) e Claudia (Christiane Filangieri). Solo che nel frattempo, il tesoro è stato trasferito a Torino per una mostra. E allora la caccia al tesoro si trasferisce nella città sabauda.
Naturalmente Caccia al tesoro è un voluto omaggio al classico Operazione san Gennaro di Dino Risi – di cui però non costituisce un remake – e più in generale alla commedia all’italiana e al cinema popolare d’un tempo, con calchi palesi da Totò (la scena della truffa del negozio di pompe funebri cita quella del vespasiano di Tototruffa ’62) e Troisi (i questuanti Salemme e Buccirosso che chiedono grazie a san Gennaro rimandano a un celebre sketch della Smorfia).
Citazioni affettuose a parte, nella Caccia al tesoro dei fratelli Vanzina però c’è poco altro. La sceneggiatura dai rudimentali colpi di scena mal si sposa con le solitamente complesse architetture del genere prescelto dell’heist movie. E il condimento di battute giocate sull’imitazione di lingue e dialetti supera il sopportabile: Tortora fa il napoletano; Salemme strascica romano, torinese, francese; Filangieri in versione prostituta con cadenza russa; torinesi dalla caratterizzazione grottesca che dicono “boja faùss”.
E va bene che Caccia al tesoro è un film dal tono volutamente leggero e fiabesco, ma il camorrista in versione guappo di buon cuore, come fossimo in un film con Mario Merola, lascia sconcertati. Ed è stonato anche l’uso della battuta della Filumena Marturano di Eduardo (“’e figlie so’ figlie”), piegata a un patetismo dolciastro, che risuona anche nel modo in cui s’impiega la Napule è di Pino Daniele (così il pantheon dei napoletani è al completo). Resta la verve un po’ più triviale, ma perlomeno non esangue, di Max Tortora, l’unico con l’aria da cialtrone vero. E una sola battuta indovinata: quella in cui un vero camorrista viene scambiato per un attore di Gomorra.