“Un tempo avevo molte idee sul cinema, mentre ora non ne ho più nessuna”, dichiarò Godard ai tempi de La cinese nel 1967, il film che segna l’inizio della sua stagione più apertamente politica, tra maoisti e marxisti-leninisti e prefigurando l’alta temperatura sessantottina. Sarà forse per questa mistura di dimensione dubitativa e disillusione circa il cinema che aveva fatto fino all’anno prima (poi Godard ripudierà come revisionista anche La cinese), e per l’apertura alla storia umana e politica del maggio francese, che Michel Hazanavicius ha concentrare in quel giro d’anni, tra 1967 e 1970, il suo ritratto del geniale regista, in italiano intitolato didascalicamente Il mio Godard, mentre il francese Le Redoutable rimanda minacciosamente al nome del primo sottomarino atomico transalpino.
Questo Jean-Luc Godard, interpretato mimeticamente da Louis Garrel, è raccontato da un punto di vista laterale ma molto coinvolto, quello di Un an après, il memoir scritto molti anni dopo, nel 2015, da Anne Wiazemsky (Stacy Martin), all’epoca dei fatti moglie appena ventenne del regista, purtroppo scomparsa pochissime settimane fa.
Il mio Godard parla al tempo stesso di sentimenti e rivoluzione. Da un lato c’è la storia d’amore tra un supposto genio (che di se stesso dice “Non sono Jean-Luc Godard, sono un attore che interpreta Godard, e nemmeno troppo dotato!”) e una ragazza borghese d’ottimi natali (nipote di François Mauriac), che non può che snodarsi tra gli alti e bassi di qualunque storia d’amore – e però ha già un che di demitizzante vedere Godard alle prese con languori, effusioni, gelosie. Dall’altro c’è il racconto d’un cineasta che sceglie di ripudiare tutto ciò cui in cui ha creduto, non solo disconoscendo i suoi vecchi film, ma dissolvendo l’immagine di sé in un’identità collettiva, quel Gruppo Dziga Vertov, fondato insieme all’alter ego Jean-Pierre Gorin, che segue un’idea di cinema comunitaria e rivoluzionaria, nel quale della firma dell’autore (lui che veniva dalla politica degli autori della Nouvelle Vague) non resta più nulla.
Nonostante le premesse impegnative – Sessantotto, rivoluzione, scomparsa della soggettività del regista – Il mio Godard però, sceglie un tono da commedia. Del maestro mantiene i tic linguistici – non ci si poteva aspettare altro dal regista di The Artist, che per parlare del cinema muto ha fatto un film muto –, e dunque ci sono i colori pop sgargianti de Il bandito delle 11, l’uso delle didascalie, jump cut, sguardi in macchina, cartelli sul nero, che restano espedienti però di superficie, fini a se stessi.
Certamente, la leggerezza da commedia vuole sbertucciare la seriosità del maestro. E allora Il mio Godard smonta il mito e lo mette a nudo (letteralmente), lo mostra scorbutico e insieme adolescenziale nelle sue rabbie, a disagio mentre in mezzo agli studenti rivoluzionari farfuglia discorsi incoerenti su nazisti ed ebrei. Ed è lampante la gag reiterata della perdita degli occhiali, a segnare l’incapacità di mettere a fuoco le cose, sia rivoluzione che sentimenti (e anche il cinema).
Difficile però asserire che Hazanavicius, da campione d’un cinema mainstream e popolare, abbia voluto “vendicarsi” dell’oscuro, cerebrale intellettualismo godardiano. Di sicuro del regista svizzero non condivide la venerazione dell’interprete Louis Garrel il quale, cresciuto a pane e Nouvelle Vague per via paterna (il cineasta Philippe Garrel), a chi gli ha chiesto cosa significasse interpretare Godard ha risposto “È come chiedere a un cattolico di interpretare Gesù Cristo”. Però il film mostra anche momenti affettuosi d’un Godard sentimentale, felice insieme alla Wiakemsky, mentre si abbracciano al cinema vedendo Gene Kelly o facendo l’amore.
Hazanavicius non odia il maestro: e forse come quei tanti che ne Il mio Godard durante le manifestazioni gli si avvicinano chiedendogli perché non faccia più film come Fino all’ultimo respiro, anche lui è orfano dell’autore del tempo che fu, quello visivamente inventivo e con meno zavorre ideologiche. Sotto sotto, c’è più nostalgia che rabbia ne Il mio Godard.