La storia di Vittoria e Abdul ha dell’incredibile: l’amicizia tra la regina simbolo stesso dell’imperialismo britannico e un impiegato indiano che, giunto a corte nel 1887 per recare un omaggio alla sovrana quasi settantenne, ne divenne l’amatissimo consigliere. A rendere più bizzarra la vicenda un ulteriore dettaglio: poiché alla morte della regina il figlio Edoardo VII distrusse tutte le testimonianze scritte, del loro rapporto non s’è saputo nulla per oltre cent’anni, finché la giornalista Shrabani Basu, insospettita dalla presenza d’un ritratto di Abdul Karim addirittura nello spogliatoio della sovrana, non si mise a indagare, scovando i documenti in possesso degli eredi di Abdul e i diari superstiti della regina scritti in hindustano, lingua che studiò per anni.
Inevitabile la versione cinematografica del libro della Basu, trasposto dalla penna dello sceneggiatore Lee Hall (Billy Elliot) e diretto dal veterano Stephen Frears, che nelle stanze reali s’era aggirato una decina d’anni fa per l’ottimo The Queen. Scontato anche che a interpretare la sovrana sia stata Judy Dench, che aveva incarnato la sovrana vent’anni fa ne La mia regina, mentre Ali Fazal indossa i panni di Abdul.
Vittoria e Abdul è un film in costume sontuoso, scenograficamente opulento e ricco di scene di massa, che Frears dirige con uno stile che mescola una leggerezza quasi vanesia a qualche notazione maliziosa. È evidente che il racconto sia stato significativamente romanzato. E il difetto principale del film sta proprio nel tono troppo fiabesco, che ritaglia due caratteri quasi inverosimili: la regina Vittoria naïf e poco conscia del proprio ruolo, Abdul ingenuo di buon cuore, quasi macchiettistico, che s’aggira inconsapevole tra le stanze del potere cianciando di tappeti e Taj Mahal.
Siamo ben lontani da The Queen, in cui Frears rapporta sempre il personaggio della regina Elisabetta alla storia con la s maiuscola della quale è protagonista, offrendo un ritratto lucido e tagliente della sovrana, della sua corte e dell’Inghilterra contemporanea. In Vittoria e Abdul, sarà anche per rendere accettabile una vicenda cui si stenta a credere, regista e sceneggiatore confezionano una cornice che spinge gli avvenimenti in una sorta di altrove da favola. Eppure, forse proprio grazie al tono edulcorato e impalpabile, Frears si permette notazioni più irriverenti.
Primo: tra lo scrivano e la regina, sebbene tutto resti nei binari del lecito, s’intuisce una tensione quasi sensuale (e c’è a testimoniarlo un budino inequivocabilmente falliforme che il regista inquadra con divertita licenziosità). Secondo, dato politicamente più rilevante, Abdul è di religione musulmana: e quando la regina muore, lui raccomanda la sua anima ad Allah.
Poi appunto, Vittoria e Abdul mantiene ben a distanza il reale contesto dell’epoca vittoriana, disegnando un ottimistico e astorico apologo sulla diversità, nel quale semmai la parte dei cattivi è incarnata da una corte che, a partire dal figlio Bertie, più che centro dell’impero più potente del mondo pare un’accolita di innocui pasticcioni. Ma bastano quei pochi graffi satirici a salvare il film, perlomeno, dalla routine più stantia.