Come si fa a non guardare The Terminal, il film di Steven Spielberg del 2004, stasera in tv alle 21.15 su Rete 4, col senno di poi, alla luce cioè degli Stati Uniti di Donald Trump? Del presidente che in campagna elettorale aveva promesso l’erezione di un muro di separazione dal Messico e che tra i suoi primi atti promulgò un decreto anti-immigrazione rivolto ai paesi a maggioranza musulmana.
Difficile anche, sebbene The Terminal abbia la confezione lieve d’una commedia sentimentale, non percepire il portato di amarezza in questa storia che racconta di un individuo cui la legge vieta l’ingresso negli Stati Uniti. Un uomo qualunque dietro il quale affiorano automaticamente simbolo i tantissimi che in questa contemporaneità globalizzata apparentemente e senza confini, vivono il condizionamento di barriere solidissime, per quanto non sempre visibili.
Viktor Navorski (Tom Hanks) è un cittadino della Krakhozia (uno di quei paesi inesistenti dell’est Europa come potevano esserci in un’operetta di Lubitsch) che giunge all’aeroporto JFK di New York nel momento esatto in cui nel suo paese è in corso una guerra civile. Non riconoscendo gli Stati Uniti il neonato regime, il suo passaporto è sospeso: e Viktor non può lasciare l’area dei transiti internazionali dell’aeroporto. Sottoposto all’occhio indiscreto delle telecamere, è sempre controllato dal direttore della sicurezza (Stanley Tucci), innamorato del suo ruolo e della saldezza della burocrazia, che cerca ogni soluzione per sbarazzarsi dell’indigesto visitatore, persino spingerlo a scappare per poterlo arrestare come clandestino.
Ma Viktor, giunto a New York per tener fede a una promessa fatta al padre, non demorde: e riesce, nei mesi di permanenza in quello spazio sospeso, a trasformare il non luogo aeroportuale in una seconda casa. In quel microcosmo spersonalizzato e di perenne transito, in fondo, finiscono per ripetersi le stesse dinamiche e gli stessi problemi della vita reale. Per cui Viktor Navorski – la recitazione svagata, antiretorica di Tom Hanks dà corpo a quell’uomo qualunque che tutti quanti siamo – si dà da fare per procurarsi cibo, vestiti, un lavoro persino – lui che non ha né documenti né un numero di telefono!
L’universo dell’aeroporto, apparentemente restio alla socializzazione, diviene un’opportunità per costruire legami. Persino il tempo passato insieme all’addetta allo sportello che un giorno dopo l’altro rifiuta la sua domanda di immigrazione si trasforma, in barba all’onnipresente burocrazia, in un momento di condivisione umana. E l’umanità è la caratteristica fondamentale di questo individuo, incomprensibile all’occhiuto direttore, che non è in grado nemmeno di capire cosa una bellissima assistente di volo (una Catherine Zeta Jones troppo da rom com) possa trovare in un senza patria e senza mezzi come Victor.
The Terminal cerca un difficile equilibrio tra favola e realismo. Certi elementi appartengono allo Spielberg più ispirato: l’inizio alla dogana dell’aeroporto in cui l’educazione formale degli addetti maschera appena la durezza intollerante della burocrazia; il rampantismo ottuso, gratuitamente cattivo e non privo di venature razziste, del personaggio di Tucci; l’area shopping come metafora di una società dei consumi forse non esattamente a misura d’uomo. Poi però prevale l’ottimismo fiabesco, la descrizione d’una zona franca e multietnica che trova forza nella diversità, l’ingenuità senza ipocrisie di un uomo buono che riesce ad avere la meglio sulla cattiveria e la maleducazione diffuse, la fiducia in un senso di umanità che alberga anche nei cuori più insospettabili.
Il lieto fine, insomma è assicurato: ma per una volta, per capire quanto sia davvero amaro l’apologo di The Terminal, bisogna guardare con attenzione i dettagli di una storia a doppio fondo, che sotto i sorrisi dispensa dubbi sui quali, oggi più che mai, è venuto il tempo di riflettere.
The Terminal (2004), di Steven Spielberg, con Tom Hanks, Stanley Tucci, Catherine Zeta Jones, stasera in tv su Rete 4, ore 21.15.