Ferrante Fever: da oggi fino al 4 ottobre verrà proiettato al cinema, distribuito da QMI Stardust, il documentario che Giacomo Durzi (anche sceneggiatore della serie In Treatment) ha dedicato a Elena Ferrante, la scrittrice italiana divenuta un fenomeno internazionale. Il documentario testimonia l’incredibile ricezione che ha avuto negli Stati Uniti l’autrice della quadrilogia dell’Amica geniale, la serie di romanzi che l’ha resa un elettrizzante caso letterario, rimpallato da Hillary Clinton (suo un endorsement durante la campagna elettorale presidenziale, riportato nel film) agli scrittori Jonathan Franzen ed Elizabeth Strout (anch’essi presenti), fino a nomi del cinema come Nicole Kidman e Amy Schumer.
Elena Ferrante è, come tutti sanno, uno pseudonimo: dietro di esso si nasconde un’autrice (ipoteticamente anche un uomo; il nome più insistentemente indicato è Anita Raja) che ha preferito svanire dietro la pagina scritta, decisa a lasciar parlare solo la letteratura. Nel documentario le uniche parole della Ferrante che si sentono sono quelle tratte dai suoi libri e interviste – raccolte nel volume La frantumaglia –, lette con asciutta partecipazione da Anna Bonaiuto, divenuta quasi un doppio dell’autrice, sin dai tempi de L’amore molesto, il film da lei interpretato che Mario Martone trasse nel 1995 dal romanzo omonimo della Ferrante.
“Stare nell’ombra è un’espressione che non mi piace, sa di complotti, di sicari. Ho preferito pubblicare libri senza dovermi sentire obbligata a fare di mestiere la scrittrice, finora non mi sono pentita”. Queste le parole martellanti, esatte, con cui la Ferrante liquida la questione del non apparire, che per lei assume un rilievo secondario, e che però per il grande pubblico costituisce un mistero appassionante, che ha dato vita a inchieste giornalistiche talvolta raffinate (quella letteraria dell’italianista Marco Santagata che sul Corriere della Sera ricostruisce l’identità dell’autrice partendo dagli indizi sparsi nei romanzi), talvolta più discutibili (quella patrimoniale di Claudio Gatti su Il Sole 24ore)
Intervenendo al Napoli Film Festival all’anteprima nazionale di Ferrante Fever (passerà in tv su Sky Arte), Giacomo Durzi ha ribadito di aver fatto un film su un’“eccellenza italiana”, per contrastare l’inveterata abitudine nazionale a parlar male di chi ottiene grandi risultati – citando il tagliente aforisma di Enzo Ferrari: “Gli italiani perdonano tutto, tranne il successo”.
Così Ferrante Fever assume il partito preso del documentario celebrativo, che con degnazione da salotto buono si smarca da un lato da polemiche e interrogativi sull’identità dell’autrice e dall’altro anche da una più consistente analisi del suo universo letterario, accontentandosi di affermazioni che ne ribadiscono apoditticamente la grandezza.
L’effetto è straniante: perché la scrittura densa e lacerata della Ferrante finisce per essere diluita dalle immagini assai composte del documentario: la fotografia carezzevole, i movimenti di macchina sempre morbidi (l’onnipresente carrello laterale), l’eleganza rarefatta degli uffici del New Yorker e degli accoglienti appartamenti altoborghesi degli intervistati, che restano al livello di considerazioni di ordine molto generale – la Strout parla di scrittura onesta, Franzen di scrittura necessaria.
Tutte le voci risuonano più o meno sullo stesso tono, Roberto Saviano, Nicola Lagioia, lo stesso Martone. E si percepisce una sorta di scollamento tra la benevolenza delle dichiarazioni e l’inquietudine, la malinconia repressa delle pagina della Ferrante. Lasciando il dubbio che quel che manca della scrittrice in Ferrante Fever sia non tanto il suo corpo quanto il suo spirito. Chissà non riesca a coglierlo invece Saverio Costanzo, regista della serie tv in corso di realizzazione tratta dalla quadrilogia, coprodotta dalla Rai e dall’americana Hbo.