Quasi 7 milioni incassati in Italia e una cifra intorno ai 500 milioni di dollari a livello internazionale: Christopher Nolan, l’autore ormai venerato come un maestro – quando si parla di lui finisce sempre per sbucare fuori il nome di Stanley Kubrick, con cui condivide l’idea di un cinema ambizioso, enciclopedico, cerebrale – e, dati i tempi, celebrato come un brand, è riuscito a trasformare in un blockbuster un’opera complessa, personalissima, “d’autore” come Dunkirk. Un film senza storia e senza un personaggio in cui immedesimarsi, che con la sola forza della messinscena, e circonfuso della sensazione di star assistendo a qualcosa di unico ed epocale, ha catturato l’attenzione degli spettatori di mezzo mondo.
Dunkirk vuole rispondere a una sola domanda: cos’è la guerra? Non una guerra in particolare, la guerra in sé: quel tipo di evento che irrompe e deflagra nella tranquilla regolarità della realtà spezzandola, costringendo l’uomo a misurarsi con una dimensione dell’esistere completamente survoltata, nella quale la vita come la conoscevamo, e percepivamo fino a un attimo prima, si dissolve totalmente.
A Nolan non interessa specificamente la Seconda guerra mondiale – ragion per cui le polemiche circa le inesattezze della ricostruzione storica del film colgono poco nel segno. Certo, da inglese il regista racconta con orgoglio scopertamente patriottico – è la nota, secondo molti, più stonata del film – l’operazione Dynamo, il salvataggio di oltre trecentomila soldati britannici intrappolati dai nazisti sulla sponda francese della Manica nel maggio 1940. C’è persino, nel finale, il riferimento a un famoso discorso di Winston Churchill (“We shall fight on the beaches”). Ma questi passaggi, oltre a celebrare l’orgoglio nazionalista tipicamente insulare – che ha fatto pensare a un’esaltazione della Brexit, e le letture politiche di Dunkirk, anche di segno opposto, si sprecano – servono soprattutto a dare una coerenza emotiva e narrativa al film, per permettere al pubblico di orientarsi in un’opera che si rifiuta ostinatamente di raccontare qualcosa di preciso.
Dunkirk è un’opera a brandelli, che va avanti per accumulazione di visioni abbacinanti, dei clangori d’una densissima colonna sonora (di Hans Zimmer) che nella sua continuità opprimente è l’unica bussola narrativa possibile, dei corpi di uomini ammassati come formiche negli spazi sconfinati d’una spiaggia che sembra astratta nella sua vastità metafisica. Opera teorica e insieme concretissima, Dunkirk dà consistenza visiva, fisica, materica all’esperienza della guerra, alla paura asfissiante della morte – palese sin dalla prima sequenza in cui un soldato s’aggira in strade deserte schivando pallottole sparate non si sa da dove e da chi – che snatura la percezione delle cose, facendo slittare la realtà verso un caos in cui vengono alterate le leggi della fisica, la regolarità del tempo sequenziale e dello spazio ordinato.
E il cinema è il solo linguaggio in grado di raccontare questo impazzimento del mondo. Il cinema che manipola e dissolve spazio e tempo, riscrivendoli in un magniloquente formato 70 millimetri (in pellicola, non in digitale) che li ridefinisce. E tutto diventa squilibrato e incerto, come testimonia la fotografia granulosa e talvolta fuori fuoco (di Hoyte Van Hoytema, Oscar subito), che ribadisce la precarietà di una realtà che, sottoposta all’atrocità della violenza, si sfalda completamente.
Il tempo: quello di Dunkirk non è più il tempo lineare come lo conosciamo. Nolan sceglie tre storie, quella del molo che dura una settimana (i soldati che aspettano l’arrivo dei soccorsi), quella del mare, un giorno (il cittadino Mark Rylance che con la sua barca partecipa al salvataggio), quella del cielo, un’ora (l’aviere Tom Hardy): attraverso il montaggio le incastra una nell’altra senza soluzione di continuità, in modo da dar vita a una cronologia totalmente inventata, che segue un ritmo intrinsecamente cinematografico, in cui un’ora dura una settimana e viceversa, e tutt’e due durano il tempo della visione filmica.
Lo spazio non ha più nulla di tradizionale. In Dunkirk dal punto di osservazione del pilota d’aereo Tom Hardy la linea dell’orizzonte che divide il cielo dal mare traballa fino a ribaltarsi; e l’acqua che invade la nave in avaria non va verso l’alto, ma si muove dalla sinistra dello schermo verso destra. Lo spazio non è più scandito dal sopra e dal sotto, dall’alto e dal basso, ma si dispone secondo un orientamento artificiale che è il cinema a stabilire.
Gli elementi naturali: Nolan in Dunkirk mette in scena acqua, terra, aria e fuoco. Ma l’acqua del mare prende letteralmente fuoco e si trasforma nel suo esatto contrario. Così il mondo come lo conosciamo non esiste più. Persino le leggi della fisica vengono sospese: ed è possibile che un aereo senza carburante, continui miracolosamente a volare per un tempo che pare infinito. Una sequenza di struggente bellezza visiva che, nel suo ribaltamento della legge di gravità, ha quasi il sapore d’una allucinazione.
La follia della guerra smaglia la realtà e la sua percezione fino a slabbrarla completamente, e non è più possibile appigliarsi ad alcuna norma per riorganizzarla in un insieme di senso compiuto. Così persino i protagonisti del film sono soggetti anonimi, che non diventano mai personaggi dal carattere definito. Non lo è Mark Rylance, non lo è Kenneth Branagh che incarna in maniera monumentale ma asettica l’alto ufficiale coraggioso e responsabile, tantomeno può esserlo un Tom Hardy senza volto, letteralmente spersonalizzato, come qualunque individuo in un tempo di ferocia in cui l’uomo e i princìpi dell’umanesimo sono diventati antiquati – l’umanesimo si salva parzialmente solo attraverso il patriottismo.
Questa è anche la ragione per cui Dunkirk non racconta niente di preciso ma affastella accadimenti scoordinati tra loro. Una vera storia risponderebbe ancora a una parvenza di ordine e logica, mentre in guerra tutto viene brutalmente polverizzato e reso insignificante, superfluo. E se la cifra di questa traballante parvenza di mondo è ormai l’incomprensibilità – perché il tempo e lo spazio, le leggi fisiche e gli elementi come li conoscevamo sono stati aboliti –, allora non vale nemmeno più la pena di sforzarsi di analizzare o, persino, guardare qualcosa, qualunque cosa. Infatti i soldati sott’acqua brancolano in un agghiacciante buio in cui la consistenza tangibile delle realtà svanisce. E la cecità affligge più di un personaggio, perché non c’è più nulla da capire o tantomeno da vedere. Se non il cinema che, alla fine di Dunkirk, è l’unica cosa che resta.