Addio a Jeanne Moreau, morta a 89 anni nella sua casa a Parigi, in rue du Faubourg Saint-Honoré. Non si tratta soltanto di un’icona del cinema francese. Con Jeanne Moreau, infatti, fa il suo ingresso sullo schermo una nuova tipologia di donna, indipendente, d’una sensualità ambigua e magnetica, per nulla tranquillizzante. Prima di lei era esploso il fenomeno di Brigitte Bardot, con la sua bellezza quasi lolitesca, provocante, ma ancora tutta chiusa dentro quell’immaginario nel quale la donna rappresenta un oggetto che subisce passivamente – e al massimo stuzzica – il desiderio maschile, a disposizione delle fantasie dell’uomo. Jeanne Moreau, la cui fama esplode quando ormai è già adulta, intorno ai trent’anni, è invece palesemente una donna che vive e gioca secondo le proprie regole, senza assoggettarsi alle convenzioni sociali, tutte, naturalmente, imposte dagli uomini.
Jeanne Moreau è stata quindi una donna bellissima ma fuori dagli schemi, simbolo di una femminilità fino a quel punto sconosciuta, che dava voce a ciò che realmente andava emergendo nella società, con donne via via più autonome emotivamente, culturalmente, professionalmente. Per la sua capacità di incarnare questo carattere assolutamente inedito, quasi tutti i registi del nuovo cinema europeo la vollero come protagonista dei loro film: non solo i francesi quindi, ma Antonioni, Buñuel, Tony Richardson, e anche il più irregolare e “artista” dei registi americani, Orson Welles. Per tutti fu una musa, per la sua bellezza enigmatica, intellettuale, insinuante e non smaccata, in grado di irretire il maschio, ma anche capace di ribellarsi all’uomo e alle regole da questo imposte.
Jeanne Moreau era nata a Parigi nel 1928, aveva studiato al Conservatoire, l’Accademia d’arte drammatica parigina, e poi era passata nei ranghi della Comedié Française, acquisendo dunque tutti gli strumenti dell’impostazione classica dell’arte dell’attore alla francese. Furono lunghi gli anni della gavetta, quasi una decina, con parti secondarie in film talvolta anche prestigiosi, come Grisbì di Jacques Becker (1954) e un solo ruolo da protagonista nel dimenticabile La regina Margot (1954). La grande occasione arriva nel 1958 con Ascensore per il patibolo di Louis Malle, un film che anticipa di poco l’aria della Nouvelle Vague, definendo i caratteri essenziali del “personaggio” Jeanne Moreau, perché in questo film è una moglie fedifraga che induce l’amante a uccidere il marito. Raddoppiano subito, lo stesso anno, Malle e la Moreau, con un altro ruolo per nulla rassicurante ne Gli amanti, dove l’attrice è una moglie annoiata che ha addirittura due amanti e che alla fine decide di abbandonare il tetto coniugale aprendosi a una vita di libertà, ma piena di interrogativi.
Nel 1960 recita in Moderato cantabile di Peter Brook, con cui vince il premio come migliore attrice al festival di Cannes. E l’anno dopo c’è il passaggio attraverso il cinema italiano, con La notte di Michelangelo Antonioni, radiografia su sentimenti essiccati in un ambiente immancabilmente altoborghese.
Nel 1962 è la volta della consacrazione assoluta, e dello scandalo, con Jules e Jim di François Truffaut, dal romanzo di Henri-Pierre Roché, triangolo sentimentale e sessuale liberissimo e anticonformista, con Jeanne Moreau al centro degli interessi di due amici, una storia dove l’amore finisce per coincidere con la morte, ma senza concedere nulla al moralismo e facendo salva la capacità di autodeterminazione della donna.
A quel punto Jeanne Moreau era diventata un’attrice non solo di grande fama ma di straordinaria maturità espressiva, capace di passare da capolavori di grandi registi impegnati a operine commerciali, senza che questo potesse inficiarne il fascino o l’autorevolezza. Nel 1962 è in Eva di Joseph Losey, dove incarna una sorta di dark lady da noir intellettuale, e nel Processo di Orson Welles, che la vorrà ancora con lui nel Falstaff (1965) e in Storia immortale (1968). Nel 1963 ritorna a recitare per Louis Malle (Fuoco fatuo) e nel 1964 è la volta di Luis Buñuel, ne Il diario di una cameriera. Accanto a questi progetti seri possono esserci un bel film statunitense come Il treno di John Frankenheimer (1964), una tipica e fatua superproduzione internazionale, Una Rolls-Royce gialla (1964) di Anthony Asquith, e anche un Malle più disimpegnato, Viva Maria!, western farsesco dove Jeanne Moreau divide lo schermo con Brigitte Bardot. Gli anni Sessanta si chiudono idealmente con La sposa in nero (1968) di François Truffaut, in cui la Moreau, ancora una volta, si sottrae alle regole trasformandosi in gelida assassina degli uomini che ne hanno ucciso il promesso sposo.
Se non ritroverà la grandezza – e i titoli – di quel magico decennio, anche dai Settanta in poi Jeanne Moreau saprà essere protagonista di film in grado di confermarne e definirne meglio il mito, dall’incontro con il vecchio maestro Jean Renoir (Il teatrino di Jean Renoir, 1970) al bellissimo saggio sull’ambiguità Mr. Klein (1976) di Joseph Losey, accanto ad Alain Delon. E sono anche gli anni in cui, per la prima volta, Jeanne Moreau decide di misurarsi con la regia, con l’autobiografico e non troppo centrato Scene di un’amicizia tra donne (1976; tornerà dietro la macchina da presa un altro paio di volte).
Nella seconda metà di carriera si segnalano Querelle De Brest (1982), l’ultimo film di Rainer Werner Fassbinder, nel quale interpreta anche alcune canzoni; Nikita di Luc Besson (1990), dove è il mentore che istruisce alla vita – e alla morte soprattutto – una futura killer; Fino alla fine del mondo (1991) di Wim Wenders, che ritroverà anche in Al di là delle nuvole (1995), in cui il regista tedesco aiutò il vecchio Michelangelo Antonioni a realizzare il suo ultimo film. Nel 1992 la mostra del Cinema di Venezia la omaggia con il Leone d’oro alla carriera, cui segue nel 2000 l’Orso d’oro alla carriera del festival di Berlino. Negli ultimi anni, fedele a un’idea alta di cinema, ha lavorato con registi come François Ozon (Il tempo che resta, 2006), Amos Gitai (Carmel, 2009), Tsai Ming-liang (Visage, 2009), Manoel de Oliveira (Gebo e l’ombra, 2012).