Uss Indianapolis di Mario Van Peebles ricostruisce una pagina assai controversa della storia statunitense. Nel luglio 1945, la Seconda guerra mondiale ancora in corso, al capitano Charles McVay (Nicolas Cage), comandante dell’incrociatore che dà il titolo al film, viene assegnata una missione segretissima, il trasporto d’un misterioso carico verso la base militare di Tinian, nel Pacifico. McVay sospetta si tratti dell’ordigno nucleare che, pochi giorni dopo, il 6 agosto, verrà sganciato su Hiroshima, decretando di fatto la fine del conflitto.
L’Uss Indianapolis effettua la missione, ma nel viaggio di rientro viene affondato da un sottomarino giapponese. I circa 900 marines superstiti (300 erano già morti nell’inabissamento della nave) si trovano abbandonati nel mezzo dell’oceano alla mercé degli squali, senza possibilità di richiedere soccorsi perché quella missione, ufficialmente, non esiste. È una tragedia, nella quale, fino al tardivo arrivo degli aiuti cinque giorni dopo, muoiono per stenti o sbranati di pescecani, quasi 600 persone. Al ritorno in patria, il capitano McVay viene processato dalla Corte marziale: e sebbene i suoi uomini, e persino l’ufficiale del sottomarino giapponese, lo scagionino da qualunque addebito, viene riconosciuto colpevole, e fatto bersaglio del linciaggio mediatico e dell’odio dei familiari delle vittime. Un colpo dal quale non si riprenderà più.
Uss Indianapolis aveva tutte le potenzialità per dare vita a un grande film politico e revisionista: la storia vera di un valoroso militare che, assuntosi l’onere d’una missione potenzialmente suicida – data la segretezza dell’operazione l’incrociatore non aveva diritto alla scorta –, diventa il capro espiatorio dietro il quale si nascondono le responsabilità degli alti papaveri. Purtroppo il film non è all’altezza del compito, soprattutto perché, tralasciando la modesta qualità degli effetti speciali, la regia non riesce a trovare un punto di vista forte cui aggrapparsi.
Uss Indianapolis per la prima metà segue le regole d’un film bellico d’impianto classico, coi ritrattini stereotipati sia del capitano McVay (un legnoso Nicolas Cage) che degli uomini dell’equipaggio: il marine povero d’origini italiane innamorato della figlia di buona famiglia, il comandante in seconda autoritario e ottuso, il sottufficiale dai modi spicci ma di buon cuore, il codardo che si redime.
Poi Uss Indianapolis si trasforma in uno shark movie che non risparmia fauci spalancate a tutto schermo e musiche cariche di tensione. In mezzo agli effettacci si dissolve il sottotesto critico della storia, confinato a un grossolano prologo con le stanze del potere ovviamente buie in cui politicanti che fumano grossi sigari prendono le decisioni che condurranno all’irreparabile.
Regista di colore, Van Peebles riserva qualche attenzione al tema razziale: delineando, seppur schematicamente, i conflitti a bordo della nave tra le comunità di bianchi e neri, rigidamente separate; e soprattutto analizzando il rapporto tra i due comandanti, McVay e il giapponese Hashimoto – che finita la guerra si spese per riabilitare l’immagine dell’antico avversario –, sacrificati sull’altare degli ideali cui credevano e distrutti dal rimorso per le atrocità della guerra e i tanti uomini perduti. Per McVay il risarcimento arriverà solo nel 2000, quando il presidente Clinton ne riabiliterà la reputazione.