Il secondo reebot di Spider-Man, dopo le versioni con Tobey Maguire e Andrew Garfield, trova un interprete più consono a età e carattere del personaggio, il ventenne Tom Holland. L’eroe in calzamaglia aveva fatto la sua prima apparizione in Captain America: Civil War e, anzi, uno dei momenti più indovinati di Spider-Man: Homecoming è il filmino girato col cellulare dallo stesso Peter Parker che racconta con l’eccitazione di un ragazzino la sua partecipazione alla battaglia degli Avengers dell’altro film.
Una sequenza che dà inequivocabilmente il tono al film diretto da Jon Watts, costruito – anche per ragioni di marketing – come un teen movie, con Parker liceale quindicenne molto nerd e non esattamente popolare, con un solo vero amico, la cotta senza speranza per la bella della scuola, l’affetto per la zia May – Marisa Tomei, molto più giovane della storica zietta dei fumetti – e l’impazienza giovanile dell’eroe che vorrebbe gettarsi nell’agone, mentre Tony Stark (Robert Downey Jr.) veglia paternamente su di lui, obbligandolo ad attendere.
Spider-Man però non può restare con le mani in mano: e s’arrangia come piccolo supereroe di quartiere, sventando rapine ma anche, modello boy scout, aiutando una signora a trovare la strada, e commettendo non pochi errori – malmena il proprietario d’un auto pensando sia uno scassinatore, attirandosi gli improperi del vicinato (tra cui Stan Lee). Insomma, il protagonista di Spider-Man: Homecoming è un buffo pasticcione adolescente: e, dopo tanti film supereroistici cupi e seriosi, questa versione è come una boccata d’aria fresca, con una leggerezza in linea con l’ironia sbarazzina del personaggio. Che oltretutto, col suo continuo sorprendersi per i mirabolanti marchingegni di cui è dotato l’ipertecnologico costume datogli da Stark, riattiva un elemento giustamente centrale in un racconto di questo tipo: la meraviglia, lo stupore quasi infantile di fronte a cose che appartengono al regno dell’inatteso e del fantastico.
Il giovane Spider-Man è idealmente uguale allo spettatore per la prima volta davanti a un film di supereroi, di cui replica l’ingenuo, genuino entusiasmo per qualcosa di mai visto. Così, se non in profondità e pensosità, Spider-Man: Homecoming ne guadagna in freschezza, avvicinandosi al film per ragazzi in stile anni Ottanta che apertamente cita, col richiamo al Marty McFly di Ritorno al futuro.
Il film poi sa anche virare verso la sua parte seria, con un colpo di scena che innesta lo scontro col nemico, che ha le fattezze disilluse di Michael Keaton, nella parte non scontata d’un uomo della classe media trasformatosi in un supercattivo (memore del Birdman di Iñárritu) per sopravvivere in quella giungla che è la società della precarietà contemporanea. Inevitabilmente, posto di fronte a un conflitto adulto, lo scanzonato Peter Parker è obbligato a maturare: e così Spider-Man: Homecoming diventa anche, con discrezione, la tappa di un piccolo romanzo di formazione sull’adolescenza, che trova in Tom Holland un interprete anche somaticamente adeguato. A chiusura di recensione, l’unica nota davvero dolente, tipica di queste produzioni: il film dura mezz’ora di troppo.