Il diritto di contare racconta la storia vera di tre scienziate contro il razzismo, tre matematiche di colore che contribuirono alle prime missioni spaziali della Nasa. Il titolo originale, Hidden figures, gioca sull’ambivalenza di “figures”, sia “numeri” che “personaggi”. “Nascoste” (hidden) sono le cifre dei complessi calcoli necessari per stabilire le traiettorie delle navicelle; ma soprattutto le donne cui non fu riconosciuto il servizio reso nel settore astronautico, che al tempo rappresentava la guerra fredda combattuta con altri mezzi.
All’istituto Langley, nella razzista Virginia dei bagni separati per bianchi e neri, lavora una squadra di matematiche di colore, tra cui Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe). Dorothy è a tutti gli effetti un supervisore, ma nessuno le riconosce formalmente il ruolo. Mary vorrebbe diventare ingegnere aerospaziale, ma la legge non le consente di frequentare l’università riservata ai bianchi. Katherine è un eccezionale talento matematico, per questo accolta controvoglia nel team di tutti bianchi del direttore Al Harrison (Kevin Costner), che lavora alla prima missione d’un astronauta americano nello spazio.
Ne Il diritto di contare la cultura si dimostra un fragile baluardo ai pregiudizi. Questi coltissimi scienziati bianchi che vogliono condurre l’uomo oltre ogni confine fisico, quando si tratta di questione razziale restano ingabbiati nel pregiudizio, condizionati dalle regole non scritte della comunità. Per loro una donne nera resta un individuo con cui non condividere nemmeno il bricco del caffè.
Questa è l’unica intuizione d’un film semplicistico. Perché basta vedere l’aria volitiva delle tre amiche, l’aria eternamente kennediana di Costner per intuire che le cose cambieranno. L’America è il paese delle grandi opportunità, bisogna solo rimboccarsi le maniche e dimostrare d’essere i migliori. Riconoscimento, rispetto, diritti verranno da sé.
Il diritto di contare ammorbidisce asperità e conflitti. Non ci sono gesti di discriminazione violenta e il movimento per i diritti civili resta pallidamente sullo sfondo. Ci sono solo singoli individui e la loro capacità di farsi valere. Tutto resta nei binari della civiltà, perlomeno esteriore. Sembra di essere ripiombati negli eufemismi di Indovina chi viene a cena, dove il razzismo è una sensazione strisciante, certo sgradevole, ma risolvibile con ragionevolezza, buon senso e buone maniere. Anche i neri del film sembrano una versione aggiornata di Sidney Poitiers, belli, eleganti, figlie beneducate, ottime scuole (separate però).
Il film si fa prendere la mano. Gli scienziati bianchi sono invidiosi e buoni a nulla (tranne Costner). E meno male che c’è Katherine, perché l’astronauta John Glenn è all’altro capo del telefono, un piede sulla navicella, motori quasi accesi, ma dice che non parte se non chiamano lei per rifare seduta stante i calcoli. E le teste d’uovo in camicia bianca e cravattino nero mica lo sanno far funzionare il cervello elettronico IBM. Mentre Dorothy, che già se l’è cavata con la batteria dell’automobile, con due dita lo mette in moto. Cosi Il diritto di contare sconfina nel ridicolo, col risultato che l’appassionante storia vera di tre scienziate di colore contro il razzismo sembra meno credibile.